
Tralasciando i cambiamenti globali, la “sostenibilità” delle grandi città ha offerto da sempre motivi di preoccupazione. La capacità della struttura fisica della città di organizzare e codificare un ordine sociale stabile dipende dalla sua possibilità di dominare e manipolare la natura. Però le città sono artefatti il cui “controllo della natura”, come ha sottolineato ottimamente John McPhee, è in fin dei conti illusorio. La natura tende a spezzare le sue catene: scova i punti deboli, le crepe, i difetti, anche un solo puntino di ruggine. Le forze a sua disposizione vanno dai potenti uragani ai batteri invisibili. A ciascuna estremità della gamma, le energie naturali sono in grado di aprire squarci che possono disfare velocemente la trama culturale. Di conseguenza, le città non si possono permettere di lasciare che la flora o la fauna, il vento o l’acqua si muovano liberamente. Il controllo ambientale richiede continui investimenti e una manutenzione sistematica: sia che si tratti di costruire un sistema di prevenzione da molti miliardi di dollari o semplicemente di estirpare le erbacce dal giardino. […] “Queste metropoli meravigliosamente sospese e inorganiche devono difendersi giorno per giorno, ora per ora, dagli elementi come di fronte a un’invasione nemica, scriveva Ernst Bloch parlando di New York o Berlino. La crescente complessità infrastrutturale, come hanno sperimentato con costernazione gli americani dopo l’11 settembre, non fa che moltiplicare i nodi critici in cui è possibile il collasso catastrofico dei sistemi.