
Più l’imperativo della revisione si spinge a fondo nel sé, più il valore del surplus si fa irresistibile e aumentano le operazioni per catturarlo. Cosa accade al diritto di parlare in prima persona e in quanto sé stessi quando la frenesia di istituzionalizzare attivata dall’imperativo della previsione viene addestrata a catturare i miei sospiri, i miei battiti di ciglia, la mia pronuncia per arrivare fino ai miei pensieri, come mezzi per i fini di qualcun altro? Non si tratta più del capitale della sorveglianza che si accaparra il surplus dalle mie ricerche, dai miei acquisti e dalla mia navigazione. Il capitale della sorveglianza vuole qualcosa di più delle mie coordinate spaziotemporali, sta violando l’inner sanctum con macchine e algoritmi che decidono il significato del mio respiro e del mio sguardo, dei muscoli della mia mandibola, della mia voce che si fa più acuta, di tutti i punti esclamativi che avevo digitato con speranza e innocenza.
Che cosa accade alla mia volontà di volere me stessa in prima persona quando il mercato circostante si traveste da specchio, cambiando forma a seconda di quel che ho deciso di sentire, ho sentito o sentirò: ignorandomi, provocandomi, sostenendomi, punendomi o pungolandomi? Il capitale della sorveglianza non può fare a meno di volermi fino in fondo, più in fondo che può. Un’azienda specializzata in “analisi degli umani” e affective computing si presenta ai clienti con questo motto: “Avvicinati alla verità. Capisci il ‘Perché'” Che cosa accade quando vengono a prendere la mia “verità” presentandosi senza invito, determinati a farsi strada nel mio sé, prendendo tutti i brandelli di me in grado di nutrire le loro macchine e avvicinarli ai loro obiettivi? Imprigionata nel mio sé, non ho vie di fuga.