Ex Libris 370 (il culo di Roma)

Roma c’entra con il nostro corpo. Affacciandosi per la prima volta dalla terrazza panoramica dell’Altare della Patria sull’orizzonte violaceo del crepuscolo, mia figlia (quattro anni) ha esclamato: – Uau! Vorrei invitare a casa mia il signore che ha inventato questa città e dargli un bacio sul sedere. – Non c’era malizia: la pensava davvero come una coccola, ma intonata a una città che anche nei suoi luoghi e istanti di straordinaria bellezza non è mai rispettosa o sottile, ha sempre qualcosa di impresentabile, di essenzialmente volgare. La volgarità salva da molte cose, soprattutto a Roma. È una città che per eccesso di spiritualità deve proteggere il proprio capitale di trivialità (come Israele accudisce il salace spirito ebraico). Una città che in questo modo si risparmia di diventare una Lourdes o un’Assisi, che non sarebbe poco, ma Roma è molto di più. È una città che sul culo, per esempio, ci ragiona molto: ne fa una metafora fondamentale, che investe la sfera della concretezza, della fortuna, dell’irrazionalità – avecce culo, capì ccor culo, èsse mmatto ar culo – e addirittura chiama con lo stesso nome il culo e il suo più celebre monumento: il bel di Roma, il Culisèo. Ed è la mia città. Mi ci ritrovo, in questo corpo a corpo: Roma me la sento addosso. Ma più la amo (le sue arterie che sono le mie, e le sue ossa di marmo, e le sue cupole che mi controsoffittano il cranio), più vivo questa sindrome di Stendhal al contrario: la nausea della banalità e del conformismo, il disagio per tutta la libera e volgare vita che dovrebbe circondare tanta bellezza, ma resta schiava delle apparenze e delle cautele.


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