I pini si sono fatti la reputazione di essere “sempreverdi” con lo stesso espediente che i governi utilizzano per guadagnare un’apparenza di perpetuità, ovvero sovrapponendo lo scadere dei vecchi mandati all’inizio dei nuovi. Mettendo nuovi aghi ogni anno e lasciando cadere i vecchi a intervalli più lunghi hanno indotto l’osservatore occasionale a credere che gli aghi restino sempre verdi. Ogni specie di pino ha la sua costituzione, in base alla quale il mandato degli aghi osserva scadenze compatibili con il suo sistema di vita. Così il pino bianco mantiene i suoi aghi per un anno e mezzo, mentre il pino rosso e il jackpine per un anno di più. I nuovi aghi assumono il mandato in giungo, mentre i vecchi scrivono i loro messaggi di congedo in ottobre. Tutti scrivono la stessa cosa, con lo stesso inchiostro giallo scuro che in novembre diventa marrone, poi gli aghi cadono e vengono archiviati nel terriccio, per arricchire la saggezza del pineto. Questa saggezza accumulata rende quieti i passi di chi cammina sotto i pini.
In pieno inverno talvolta racimolo dai miei pini qualcosa di più importante della politica dei boschi e delle notizie sul vento e il tempo. Di solito capita in qualche buia serata, quando la neve ha cancellato tutti i particolari irrilevanti e la quiete della tristezza primordiale si stende pesantemente su tutto ciò che vive. Ma i miei pini, ognuno con il suo carico di neve, se ne stanno diritti impalati, fila dopo fila, e ancora più oltre, come confusa nel crepuscolo, io sento la presenza di altri alberi, a centinaia. In quei momenti provo un singolare travaso di coraggio