È il fascino dell’ignoto a muovere gli scienziati. Questo è dovuto in parte alla comprensione intuitiva del fatto che quante più cose scopriamo, tanto più si aprono gli spazi prospettici della nostra ignoranza.
C’è da meravigliarsi, quindi, che ci siano persone – tra le quali non mancano educatori, giornalisti, scienziati – che non sembrano in grado di afferrare quest’intuizione. Per loro la scienza riguarda esclusivamente i fatti – come nel programma pedagogico di Mr. Gradgring in Tempi difficili di Charles Dickens. I fatti equivalgono alla verità e la scienza, sembrano pensare, è un gioco a somma zero, tutto incentrato sull’accrescimento quantitativo della verità e sul corrispondente calo del volume netto dell’ignoranza. In realtà la scienza non ha a che fare né con i fatti né con la verità, ma con la quantificazione del dubbio. Nell’angolo angusto di realtà che è a noi accessibile, gli scienziati riescono a imporre dei limiti alla nostra ignoranza, ma non possono bandirla per sempre. E, ripeto, quanto più scopriamo, tanto più esteso ci apparirà l’oceano dell’ignoranza. Il commento, quasi scontato, a ogni nuova scoperta – che “solleva più problemi di quanti ne risolve” – è un ben motivato cliché. Quando vado a parlare agli scienziati dei meccanismi interni di “Nature”, io dichiaro sempre – con orgoglio – che tutto quello che la rivista pubblica è “sbagliato”. Non dovrebbe essere così sorprendente come invece risulta. Dopo tutto, nessuna delle risposte che la scienza ci fornisce è mai l’ultima parola, né potrebbe esserlo. Ogni scoperta scientifica è provvisoria, destinata a essere spodestata, grazie ai risultati raggiunti con la raccolta di ulteriori dati, con i progressi della strumentazione, con la comparsa di nuove idee. […] la scienza inizia e finisce con un tentativo di valutazione dell’ignoto, della vastità della nostra ignoranza: ciò esige umiltà, non arroganza, dinanzi alle evidenze. Credo sia qui che le anime coraggiose, nel loro tentativo di frapporre una diga contro la marea montante dell’ignoranza volontariamente scelta (spesso per motivi religiosi), abbiano fallito. Non avrebbero dovuto proclamare a gran voce le virtù della scienza, del vero e – sì – dei fatti, contro la pseudoscienza e la superstizione; avrebbero dovuto, invece, ammettere ciò che era ovvio.
Vale a dire che la scienza non ha a che fare con la verità, ma col dubbio, non con la conoscenza, ma con l’ignoranza, non con la certezza, ma con l’incertezza. Mai, nel campo della ricerca umana, è accaduto che così tanti riuscissero a sapere così tanto su così poco. Solo i creazionisti […] possono assopirsi avvolti nel calore ingannevole della verità, della conoscenza dei fatti – perché già sanno le risposte, avendole accettate senza discutere, trasmesse da un’autorità superiore, come un bambino dal padre.
Gli scienziati […] che sono cresciuti e si sentono quindi capaci di cercare da soli le risposte piuttosto che riceverle dall’alto, dovrebbero essere in grado di trasmettere al pubblico lo stupore senza fine – l’avvertimento di una spaventosa grandezza, il terrore, il senso della nostra insignificanza – generato dal confronto con l’ignoto.