(Qualche anno fa scrivevo dopo una delle diverse trasferte barcellonensi questo pezzo cui sono piuttosto legata. In questi giorni, con la Catalogna di nuovo in fiamme, lo pongo alla vostra cortese attenzione. Si parla di architettura, che è poi una delle forme plastiche della cultura, che è poi quello che crea un’identità, che è poi quello che infuoca gli animi come adesso.)
Mançana de la discòrdia
Dolça Catalunya,
patria del meu cor…
Passeggio per il Passeig de Gràcia, ed è tutta colpa di Pombal, probabilmente. Mentre Voltaire era impegnato a poetare cupo sull’ala di distruzione spiegatasi su Lisbona quel 1 di novembre 1755 (“Lisbone est abmée, et l’on danse à Paris”), il marchese dal fiero cipiglio che campeggia ancor oggi assiso sulla sua piazza eponima, andava sul pratico. Sulle rive del dolce Tejo, sulle macerie e i 30.000 morti ecco la Baixa, primo quartiere moderno: trionfo del reticolo, della regolarità ortogonale, esprit de géométrie e pensiero rivolto al futuro – nuovi trasporti, carrozze, i filobus dietro l’angolo, il progresso che si sceglie le linee rette, non ha più tempo di attardarsi e si incorona da solo, intronizzandosi tra il fascino antiquato delle colline adiacenti, i labirinti biancheggianti dell’Alfama, la frastornante umanità del Bairro Alto, lasciandosi contemplare dai miradouri d’oriente e d’occidente.
Un secolo dopo sarebbe arrivato Cerdà. Ildenfons Cerdà i Sunyer, per citare in tutto il suo splendore il classico nome composto catalano. A Barcellona l’Eixample, l’ampliamento ottocentesco, si protende verso l’interno, fino a toccare le pendici dei primi dislivelli che trasformano le strade dell’”incantatrice” in una piccola succursale di San Francisco. Ci si può arrivare volgendo le spalle al mare azzurro, infilandosi nelle tortuosità romano-medievali del Barri Gòtic, superando la massa un po’ opprimente della cattedrale, aprendosi infine alla maestosità di Plaça de Catalunya. Ed ecco, pensiamolo come alzandoci su un dolly immaginario, il disporsi assoluto della regolarità, le intersezioni a 90° dei carrer, almeno fino a Casa Milà, che affaccia sul taglio obliquo dell’Avinguda Diagonal, prima dell’allegro caos delle piazzette di Gràcia.
I catalani, geneticamente predisposti all’orgoglio nazionalista e a un difensivo senso di superiorità (eretto a scudo protettivo negli alti e bassi del lungo confronto col centralismo madrileno-castigliano), i catalani dicevamo rivendicano una progenitura sulle successive grigliate di avenues parigine e newyorkesi. Se poi questo sia un merito a tutto tondo, è da vedersi. In effetti i più grandi tra gli architetti modernisti furono tra i più fieri oppositori della dittatura geometrica imposta da Cerdà. Ma qui viene il bello. La ferrea progettualità dell’Examplie viene esaltata e boicottata al tempo dagli edifici deliranti che si affacciano sulle sue arterie, dalla loro poetica del ghiribizzo e del rondò capriccioso. Ci deve essere una metafora in tutto questo, ne sono sicuro.
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Poi, certo a Barcellona c’è chi ci va per i motivi più vari:
chi per rendere omaggio alla Catalogna, svuotando le Ramblas dal fiume turistico scorrente tra mimi e giocolieri per traversarla di barricate anarchiche, sostando in raccoglimento di fronte alla facciata di Sant Felip Neri violentata di fori di proiettile, canticchiando a mezza voce If You Tolerate This Then your Children will be Next;
chi ci va per Vasquez Montalban, chi per gli Indios de Barcelona di Manu Chao;
chi ci va per sentire la musica del catalano, questa lingua bellissima, che sembra di ascoltare Bernart de Ventadorn e Jaufre Rudel anche quando si inneggia agli 11 blu-granata:
Blaugrana al vent,
un crit valent,
tenim un nom, el sap tothom:
Barça, Barça, Barça!;
chi perché tutti ci vanno, nelle estati dopo il 2000.
E come fai a non amarla, Barcelona, piazzata com’è in quella longitudine ideale dove il colore, il calore del Sud incontra il rigore, l’efficienza del Nord, dando vita al più inaspettato dei matrimoni? Sì, è bello risvegliarsi questo giugno ai bordi occidentali del Mediterraneo, in una città che sembra la perfetta somma aritmetica di Napoli e Parigi.
Con un po’ d’invidia, magari, per chi ha il mercato più bello del mondo (Boqueria); la piscina più bella del mondo (lì, sul fianco del Montjuïc: e la mente ripesca l’inquadratura dei tuffi olimpici ‘92, i corpi pronti al gesto sul trampolino, e dietro, addosso, schiacciata dal tele, la città rinascente); l’auditorium, l’ospedale più belli (ne riparliamo). Magari le manca il fado, il sublime arpeggio d’anima oceanica, o il flamenco, il fiammeggiare meticcio arabo-andaluso, come il respiro celtico di Galizia. Altra è la sua musica: la Chiquitita al glockenspiel delle due ragazze davanti alla Seu; i botti di Sant Joan sulle spiagge festanti; i poliritmi dei locali lungo il Carter d’Avinyó, dal pomeriggio a oltranza; le grida dei pischelli che sciamano per la notte del Barri fatti di cerveja con addosso il numero 10 di Ronaldinho, e chissà se sanno chi era Cruyff e hanno visto quel gol pazzesco in mezza rovesciata, metà anni Settanta, tramonto franchista. Vedo in Plaça de la Mercè una ragazzina in rosa strisciare a terra per un rituale tutto da interpretare, o forse no. Poco più in là un gruppetto sul brillo si stringe in cerchio per improvvisare una sardana caracollante, che pure induce una certa commozione. Il tempo è variabile, così il mio umore, ora in luce, ora in ombra. Qualche squarcio di passato, come un congedo:
– Ho visto solo stelle buone sulla tua pelle.
– La mia pelle non ti dimenticherà.
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Ma sto divagando, si parlava di architettura.
Si diventa tutti un po’ fanatici di tale disciplina, a Barcellona, in modo diverso e più specifico che in qualsiasi altra metropoli occidentale (a parte, chi lo sa, Chicago?). Che i catalani, i nordici di Spagna, concreti e produttivi come gli arrotini che sfornano continuamente ad addormentare il tennis mondiale, abbiano prodotto alcuni dei più fantasmagorici architetti della storia, in un arco di tempo ben delimitato, tra l’Esposizione Universale del 1888 e gli anni Venti, non finisce di meravigliare. D’altra parte Borromini, il sommo, l’insuperabile, non era forse svizzero, come gli orologi e la cioccolata?
Certo, sembra che tutti non vogliano che Gaudí. I giapponesi, e ormai anche i cinesi, gli americani e gli italiani, onnipresenti, danno l’assalto alle ceramiche del Park Güell, si immortalano abbracciati ai comignoli spaziali della Pedrera, compiono l’obbligatorio girotondo della Sagrada Familia. Sì, Gaudí è la superstar assoluta dell’architettura novecentesca, più di Wright, o Le Corbusier, praticamente il nonno di Frank Gehry. Perché? Per me, perché è riuscito a innestare sul miracolo della tecnica trionfante il miracolo di una fede atemporale, semmai proiettata in una sorta di medioevo eterno. L’avesse saputo, il pio uomo finito sotto un non troppo pio tram quel giorno del 1926, che l’Ajuntament della sua città avrebbe costruito le proprie montanti fortune commerciali sulle curve incessanti e i pinnacoli zoomorfici di quel geniale artigiano affetto da qualche eccessiva turba mistica…
Per fortuna, quando si atterra nel pianeta Barça, due altri difficoltosi nomi iniziano di prepotenza ad affacciarsi. Quelli di due signori dall’aspetto impeccabilmente borghese, baffetti d’ordinanza, tendenze conservatrici, matite di sfrenata fantasia: Lluís Domènech i Montaner, Josep Puig i Cadafalch. L’itinerario della Ruta modernista diventa con loro una gara senza esclusione di colpi. Il gruppone (Comas i Thos, Pupurull, Sayrach Carreras, Vilaseca ecc.) partecipa sfoderando merletti, bifore, merlature, coronamenti puntuti, gimcane vegetali, efflorescenze vetrarie, ma alla fine restano sempre loro, tre uomini in fuga: Domènech, Gaudí, Puig. Come Bernini e Borromini a Roma, Wagner e Loos a Vienna.
Sarà che il secondo è stato inesorabilmente consumato dal successo di massa, come la Gioconda o Botticelli, sarà che la sua intransigenza fideistica inquieta anzichenò, però Gaudí sa di digerito ancor prima di vederlo. E se le famose case ancora ritengono il loro potere di suggestione, la Sagrada Familia invece, la cartolina barcellonense per eccellenza, è stata inesorabilmente fagocitata dal meccanismo del consenso. Quando si avvistano le “quattro guglie merlate che avevano esattamente la forma di una bottiglia di vino del Reno” (Orwell), ora accompagnate alle altrettante gru che costituiscono parte integrante del profilo della chiesa penitenziale ed esponenziale; quando si entra nella Plaça circondata da bancarelle e chioschetti in stile Colosseo, intorno a cui frotte sveltadoranti infinite compiono la rituale processione, l’unica salvezza sembra essere quella di imboccare Avinguda de Gaudí e lanciarsi verso l’Hospital de la Santa Creu i Sant Pau (vedi alla voce ospedale più bello del mondo), piazzato per volontà di Domènech in spettacolare posizione diagonale rispetto alle sbarre viarie di Cerdà. Vista dall’ingresso del capolavoro domènechiano, la Sagrada si mette in prospettiva dentro un discorso più articolato, e iniziamo a tracciare il profilo d’anima di Barcellona. Girando per i viali dell’Hospital, tra i suoi padiglioni da paese delle fate, come sostando di fronte alle quasi disneyane invenzioni del Puig di Casa de les Punxes, si capisce la lungimiranza di questi provinciali con gli occhi bene aperti sul mondo, attenti a innestare il retaggio romantico della nostalgia su un presente borghese-industriale-visionario.
Per capire di cosa è capace Domènech, bisogna uscir fuori dell’Examplie, facendosi un giro per gli stretti carrer di Ribera alta, con la loro progressione inesorabile (Sant Pere Més Baix, Sant Pere Mitjà, Sant Pere Més Alt), fino a quando quasi a tradimento ci di trova di fronte al Palau de la Música Catalana (vedi alla voce auditorium più bello del mondo), e allora non si sa bene se iniziare a ridere o piangere, pensando all’artefice di cotanta audacia. Descrivere il Palau è impresa improba. Ci si fosse provato qualche prosatore fiorito come un Gautier, gli sarebbero partite belle decine di pagine per star dietro al profluvio imponente di decorazioni cui tutte le arti danno il loro contributo, e che elevano il concetto di orpello a livelli di tale survoltata perfezione da portare il kitsch alle porte dell’assoluto: mosaici, marmi, vetri, ceramiche, ferro battuto, squadernati in combinazioni, contrasti, ibridazioni all’apparenza inesauribili, fino al lucernario-sole-atomica floreale che veglia dallo zenit sulla sala concerti, sublimando e stilizzando tutto lo spirito di un’epoca.
(Già, il Palau. È significativo, a proposito di coincidenze astrali e giochi del genius loci, che tirando una linea ideale ad attraversare la città orizzontalmente – se la guardiamo dal mare o dal Tibidabo – si arriva proprio alle falde del Montjuïc, poco sopra Plaça d’Espanya, dove nel 1929 fu (dagli anni Ottanta è di nuovo) il Pavalló di Mies van de Rohe. E chissà cosa ne pensava l’erede di Adolf Loos, il profeta del “less is more”, di questi compassati e deliranti architetti catalani che sembrano inconsciamente aver inventato la nozione di pastiche postmoderno. E se magari tra i viali del colle gli capitò di incontrare ai tempi dell’Esposizione l’unico ancora vivo, lo squisito Puig, convertito negli ultimi anni a soluzioni più convenzionalmente monumentali come quelle del Palau Nacional.
Oggi, vagando per le magiche proporzioni di Mies, che sembrano lì solo in attesa di essere inquadrate da Antonioni o Michael Mann, quella coppia molto stilish di giapponesi con cui condivido la visita pare proprio a casa, misurando quanto di armonia zen sia confluita nel razionalismo Bauhaus. E quel ragazzo italiano che spiega alle due adolescenti – forse già con la testa al bagno del tramonto e a una cava frizzante guardando il mare dalla Barceloneta – la nascita dell’architettura moderna, insuffla qualche stilla di speranza dentro al cuore.)
Puig dal canto suo, meno spettacolare, più prezioso, va scoperto nei dettagli: la panoplia intricata come un sottobosco equatoriale sulla porta del 4 Gats; il vestibolo pseudo-moresco del Palau del Baró de Quadras; soprattutto la ciclista scolpita all’ingresso di Casa Macaya, sorpresa e incanto da cui non ci si vorrebbe più staccare.
Fino a quando si arriva al confronto diretto. Passeig de Gràcia, isolato dal 35 al 43, guardare a sinistra, sempre se si viene da Catalunya. Mançana de la discòrdia. Fuochi d’artificio, unici, irripetibili. Domènech, Puig, Gaudí si danno appuntamento nel bel mezzo dell’Examplie e mettono sul tavolo le carte.
Domènech: Casa Morera. Fa da apripista, ma al tempo si tiene un po’ in disparte, estraniandosi dalla lotta dura. Lluis va di bulino, chiedendo ai suoi scultori di incurvare, infiorettare, grottescare a tappeto, e innalzando un gazebo dei suoi, un po’ arabeggiante, un po’ a mezza strada tra Naboo e Gran Burrone. Non mancano le vergini che spuntano dai balconi o cariatideggiano ieratiche accanto alle finestre. Grande maniera, insomma. Nobile, distaccata.
La partita vera si gioca tre numeri più in là. Puig: Casa Amatller; Gaudí: Casa Batlló. Le file sono tutte davanti all’ultima, del resto attualmente l’unica visitabile. Ma l’impatto di ciascuna alla vista è di quelli straordinari, e addirittura clamoroso il loro concomitare. Sposalizio di ornamento e geometria, quello celebrato da Puig, puro abbandono all’ondulazione zoomorfica per Gaudí; la pignoleria decorativa contro l’irregolarità cromatica orchestrata dal fido “piastrellatore” Josep Maria Juiol. Mettiamoci alla frontiera tra i due territori e confrontiamo le finestre adiacenti: bifora sostenuta da colonne spiraliformi, la nettezza triangolare della A di famiglia soffocata da un intrico arboreo da cui guizzano due dinamiche garguglie da un lato; esoscheletro di drago, grotta marina, reperto fossile-pop dall’altro. Se la trasgressione alla buona condotta strutturale perpetrata da Gaudí è palese, smaccata, quella di Puig è più sottile, in ultimo più appassionante. Nei gradoni da ziggurat liberty che puntano verso il cielo si legge in controluce la passione medioevale, che è poi specificatamente il rimpianto catalano per la sua prima età dell’oro, il Trecento della conquista del Mediterraneo, e il suo riversarsi nella nuova età dell’oro, quella dell’industria e del progresso, dove i cioccolatai come Amatller andavano a fornire di prelibatezze Belle Époque i ricchi commercianti, imprenditori, trafficoni nelle loro bizzarre case moderniste. Nessuna astrazione restauratrice alla Violet Le Duc, ché qui si sogna alla luce dei lampioni a gas, al ritmo di motori a scoppio e sulla scia verniana dell’Ictíneo submarino di Narcís Monturiol.
We love technique. Come Domènech che shakera araldica e réclames al Museu de Zoologia, che ingabbia in un suo edificio i resti di un tempio romano dell’antica Barcino o si inventa una buca delle lettere con tartaruga e rondini che vien voglia di lasciarci dentro qualche messaggio decisivo, per nessuno in particolare. Mentre Puig canta i cavalier, l’arme, gli amori, Sant Jordi e le dame in bicicletta. Le vergini preraffaellite del Palau e delle Punxes bevono assenzio e l’Arts and Crafts si rosola al sole del Sud.
Lungo il vialone teso al futuro tempi e spazi si accumulano e disperdono, la mançana riluce come una stella esplosa. Ma ciò che dà più da pensare è il destino delle due povere case che stanno lì in mezzo, al 37 e al 39, Casa Mulleres, Casa Bonet, nate per far da cortina divisoria, capitate per caso nel bel mezzo della Storia, tipi comuni in circostanze eccezionali. La strada della saggezza è esaltata dai palazzi dell’eccesso, l’isolato più eccessivo brilla più luminoso per quel nucleo di saggezza.
(A Paola, che ha lo sguardo acuto)