Quattro motti avevano guidato la sua vita. Nella giovinezza lo sprezzante incitamento al coraggio di Pompeo al suo equipaggio: navigare necesse est, vivere non necesse.
Una volta in Africa aveva fatta sua l’asserzione, altamente etica, incisa nello stemma dei Finch Hatton: je responderay, ne risponderò.
Diventata scrittrice le piace assumere la leggerezza del nome di una nave affondata al largo dell’Islanda: Porquoi pas? In quel «perché no?» legge un «segnale di sfrenata speranza».
Più in là negli anni, quando comincia a toccare con mano – come aveva scritto in una preveggente lettera al fratello – che la vecchiaia è «il momento nella vita, in cui due scelte sono ancora possibili e poi, l’attimo dopo, solo una è possibile», sceglie come motto un insegnamento dall’ambiguità soavemente zen, preso dalle iscrizioni sulle tre mura di un’antica città inglese. Sulla prima cerchia di mura stava scritto: «Sii audace». Sulla seconda pure. Ma sulla terza: «Non essere troppo audace». Così il monito è: Sii audace. Sii audace. Non essere troppo audace.
Infine alle soglie della morte, le sembra perfetta la scritta, da ripassare sia nel momento del trionfo sia in quello della sconfitta, incisa all’interno dell’anello di un antico imperatore cinese: Anche questo passerà.
Se è vero, come scrisse Hanna Arendt, che «la saggezza è una virtù della vecchiaia, e sembra essere concessa solo a chi, da giovane, non è stato né saggio né prudente», Karen Blixen era predestinata alla saggezza.