Ero fermamente deciso a saltare a piè pari l’era dell’iPod, ma poi… me ne hanno regalato uno. Come volevasi dimostrare, anch’io ho ceduto alla perversa e soave seduzione sessuale dell’oggetto, appassionandomi come un invasato alla trafila della copiatura e organizzazione della musica. Però ci ho messo poco a rendermi conto che tutta quella scelta non mi andava a genio: è come cenare in uno di quei ristoranti con il menù troppo lungo, pagine su pagine rivestite di plastica; o guardare una tv via cavo con centinaia di canali che quasi ti obbligano a fare zapping.
La funzione shuffle mi salvava dal problema della scelta: come tutti all’inizio ne sono rimasto rapito e, come tutti, ho sperimentato il brivido delle ricorrenze misteriose e delle scalette imprevedibili. Ma lo svantaggio dello shuffle non ha tardato a manifestarsi: affascinato dal meccanismo in quanto tale, in poco tempo sono caduto vittima dell’impazienza di sapere cosa sarebbe arrivato dopo. Cliccare sul prossimo brano casuale era una tentazione irresistibile. E se anche era fantastico, c’era sempre la possibilità che subito dopo il lettore avrebbe selezionato qualcosa di ancora più fantastico. Col tempo ho cominciato ad ascoltare i primi quindici secondi di ogni canzone, poi ho smesso del tutto. La “freneticittà” colpisce ancora. Era una sorta di estasi dell’optional, il consumismo spogliato degli elementi più noiosi (il consumo, il prodotto in sé). La conclusione logica sarebbe stata levarmi le cuffie e limitarmi a osservare il display.
Per quanto riviste come “Wired” amino presentare la tecnologia come la forza inarrestabile della necessità, le innovazioni non attecchiscono se e finché il clima non è giusto: la macchina deve soddisfare e rispondere al desiderio popolare e alle esigenze del consumatore. Lo scenario culturale adatto all’utilizzo precede sempre la macchina, se non come invenzione almeno come fenomeno di successo. L’iPod è decollato perché ha potuto inserirsi spontaneamente nella “Me generation” del nuovo millennio, dove l’insistenza nel fare a modo tuo e subito riflette l’enorme peso esistenzial-politico investito nel consumismo (sostanzialmente l’unico settore controllabile nella vita della gente). La i all’inizio del nome ha una ragione ben precisa: questo è musica mia, non nostra.