Un paio di citazioni ortesiane sulla letteratura

Da Il cappello piumato:

Forse non mi riesce di spiegarmi, ma sempre meno io trovavo nella società industriale il terreno adatto a intingervi, per così dire, la penna. Il nulla, e la società industriale, erano per me tutt’uno. Forse non era un nulla, era invece una grande costruzione, ma quanto e come inaccessibile! Qui, nessuna espressione umana, che non fosse una interpretazione di quelle impalcature, quelle torri di cemento, quei pinnacoli, di quella infinita e inafferrabile attività di ogni cittadino, di quella, per così dire, cieca attività di formiche, nessuna espressione d’altre cose e fatti aveva ormai qualche senso. Io sentivo che oltre la città la vita continuava come un impulso incandescente, era libertà e creazione continua, mentre nella città non era creazione, ma unicamente ripetizione e moltiplicazione, all’infinito, di gesti e movimenti atti alla produzione di beni che avevano per effetto d’inaridire l’uomo, e il primo di questi beni era il vuoto denaro, e a questo denaro, e solo a questo vuoto denaro era devoluto il compito di qualificare l’uomo, riconoscerlo schiavo o libero; e chi non aveva denaro, o non se lo poneva come fine, fosse anche il migliore degli uomini, a questa società era ritenuto estraneo, la società non sapeva che farsi di lui. Ero affascinata da questa città, nelle sue antiche strutture, ma ciò che si era andato formando su queste strutture, il tipo di società che già si intravedeva e si profilava come: Avvenire, era meno buono. Mi sembrava infine che questa società non avesse bisogno di me, né di alcun essere come me, e più il tempo passava, e più questa sensazione si faceva viva. Qui, non solo io non potevo, ma non dovevo svolgere nessun’utile azione.

Una delle mie convinzioni era che una certa azione umana, per un artista, un certo margine di responsabilità civile, fossero indispensabile base a una seria ispirazione; ma qui, purtroppo, lo scrivere era concepito o in senso pubblicitario, di fare luce su un prodotto dell’industria (l’uomo era sempre meno ben visto), o come decorazione, e i libri diventavano sempre più piccoli, mentre la pubblicità agli stessi diveniva più grande. Fra poco non sarebbe stato necessario scrivere alcun libro, per essere scrittori: sarebbe bastata una intelligente pubblicità. Non solo di che scrivere, dunque, ma perché scrivere?

Fosse stato soltanto questo. C’era la lingua. In che lingua scrivere? L’italiano, da anni era scaduto, invecchiato dall’assenza di carattere, di pensiero; nella città, poco alla volta, anche quelle tracce di linguaggio s’erano perdute, e si parlava un gergo tecnico-mondano, che di appartenente all’uomo non aveva più niente. Senza lingua, né cose per questa lingua, in che modo, e perché scrivere?

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Da Il porto di Toledo:

Secondo tale avvertimento, che contrastava con tutto ciò che io avevo pensato finora della Espressività, essa, sebbene ci apparisse solo (chi guardi la Litteratura caso per caso) un tentativo continuo e affannato di esprimere l’immagine che l’uomo si è fatta del mondo, e perciò potesse apparire al profano o superficiale, un semplice riflesso di tale mondo, era, in realtà, un secondo mondo o seconda realtà, una immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno, da parte di morituri; e ciò, non già al solo fine di esprimerlo (questo, un effetto secondario), bensì di costituirsi, tale inespresso finalmente rivelato, come una seconda irreale realtà; non tanto irreale, poi, se vedevamo la realtà vera disfarsi continuamente, al pari di un vapore acqueo, e la realtà irreale dominare l’eterno. […] Ecco perché la vita mi appariva tremenda: non perché fossi giovane e misera, ma perché di ogni cosa io avvertivo da sempre la fugacità, l’irreale. E a questa fugacità e irreale non era rimedio. E mi parve, considerando ciò, il destino dell’uomo assai orrendo. […] Di poi, ripensandoci, mi parve sì questa vita tutta irreale, come aveva detto D’Orgaz, ma non irreale l’anima dell’uomo e dei viventi tutti; e perciò la Espressività scritta solo una testimonianza dell’uomo; ma, oltre e sopra di questa Espressività come Testimonianza, vive una Espressività Totale, o Continente dell’Essere, i cui periodi, le cui pagine e la stessa interpunzione, risultano formati dalla infinità di tutto quanto è vivente, e suoi moti e azioni, – che perciò non muore se non allo sguardo di altri sguardi fuggenti – in realtà resta, in luogo ignoto, come resta il mare che salutiamo approdando, l’astro che vediamo scomparire all’alba, ecc. Solo ciò, io pensavo, aveva più realtà e immortalità di tutto: l’essere e il pensare o sentire muto: mentre l’Espressività che si documenta, tanto cara a noi, cioè D’Orgaz e Toledana, solo un momento dell’Espressività universale. / Sì, – pensai, – tutto si esprime, anche se non in documento; l’uccello canta, e perciò si esprime. La vela si apre, e perciò si esprime. Apa invoca il suo Rassa, e perciò si esprime. E, una volta espresso, tutto ciò non potrà mai più morire. Vi è una realtà, di cui fanno parte Apa, la vela, l’uccello. Tale realtà è già cosa espressa, in quanto manifestata, è quindi realtà indistruttibile; la sua materia essendo unicamente l’indivisibile pensiero, quando vedi questa materia o mondo, vedi questo vivente pensiero: che perciò, come i pensieri, muta e si distanzia, ma non si perde, e sempre alti pensieri produce. Dunque realtà, come cosa pensata, è moto di pensiero, Apa è un pensiero, Rassa un pensiero, D’Orgaz un pensiero che a sua volta pensa.


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