Terry

Terrence, soprattutto quello lubezkiano, sempre più libero, documentaristico, improvvisatorio, arreso al flusso, da The New World in poi, lo ami o lo odi. Molti lo odiano con tutto il cuore, e soprattutto in occasione di quella meraviglia totale di To the Wonder hanno iniziato a dirlo ad alta voce. Da queste parti lo si ama, anche quando ci marcia (e in Song to Song ci marcia parecchio). Del resto, nei suoi ultimi film, o sei pronto alla deriva, stacchi gli ormeggi, respiri e ti fai arrivare tutto il vento in faccia, o non vai da nessuna parte. E ti perdi tanto.

Ti perdi stormi, tanti stormi, quanto ama gli stormi Malick (quanto noi).

Ti perdi un film musicale dove incontri, nella parte di loro stessi, John Lydon che lancia le sue massime e Iggy Pop che ti fa vedere la pelle da iguana, Flea che fa i salti col basso o Patti Smith che parla a lungo di suo marito Fred “Sonic”. Ma poi c’è Lykke Li, che non fa Lykke Li, bensì una tale Lykke che duetta con Ryan Gosling su un pezzo di Bob Marley, o si guarda un concerto dietro le quinte insieme a Florence Welch (2 secondi di Florence, non di più). E quindi? Per non parlare Val Kilmer che fa intravedere come avrebbe potuto invecchiare Jim Morrison, e sproloquia di scorte di uranio dal palco. WTF?

Ti perdi un film musicale dove dei festival texani (a parte una buona porzione di Patti Smith che horseggia) ti sono concessi spizzichi e bocconi, e però c’è una sountrack pazzesca di quelle che solo Malick (o Mann) può sfoderare, dove si passa da Mahler a Ravel, da Del Shannon all’Orchestra Baobab. (E dove anche, sì, del cantautore protagonista si sente giusto mezza canzone, mentre Rooney Mara si limita a far finta di strimpellare un par di volte la chitarra sul palco.)

Ti perdi un altro, come Mann, che col digitale (“These days, with modern technology, you can shoot a lot in 40 days”) ha portato all’estremo la propria concezione del cinema, rendendolo mai così aderente alla superficie cangiante del mondo, consegnandosi ad esso fin quasi all’informalità.

Ti perdi alberi, spiagge, albe, tramonti, scarti subacquei, squarci di luce, pedinamenti grandangolari dell’inattingibile. Le solite cose? Sì, le solite cose, eppure ogni volta negli occhi di Terrence ed Emmanuel (oltre che dei contributori esterni che allargano e sfrangiano ulteriormente le prospettive) diventano “la cosa”.

Ti perdi appunto la fotografia di Lubezki. La definizione di Christopher Hooton su “The Independent” mi pare geniale: “The notion of the “camera as a character” is cliché, but if it were one here it would simultaneously be a drunkard lost on the way to the canapé table, a fan reverentially documenting a star with an iPhone, and God himself.”

Ti perdi Christian Bale o Benicio Del Toro perché sono andati a far compagnia a tutti gli altri attori scartati in moviola.

Ti perdi quella svisata di inferno psichedelico compresa di frammenti di film muto che fa davvero paura.

Ti perdi Mara, Gosling e Fassbender che fanno gli scemi, ma proprio quando inizi a pensare “Terry, non è che mi stai un po’ a pigliare per i fondelli?”, bum, un colpo al cuore, tanti ai sensi, e l’impressione che l’infinito sia proprio lì a portata di sguardo.

Ti perdi le sue molteplici voice over, che ormai hanno quasi completamente soppiantato i dialoghi, e per molti sono pretenziose e ridondanti, ma in realtà sono pura musica ipnotica dentro cui perdersi e riperdersi, come nel profluvio di location, nel tempo dell’anima che sbriciola qualsiasi cronologia.

Se non ti perdi insomma ti perdi il lavoro di un uomo che (qui prendo a prestito le parole di Pietro Masciullo) “è alla disperata ricerca di una “nuova forma” che riconsegni credenza al gesto cinematografico: ogni sua inquadratura viaggia ostinatamente controcorrente, cercando senza sconti quel “qualcosa che deve essere ancora trovato”, un sentimento originario e puro, un singolo raccordo che possa giustificare tutto il caos dei segni di questo mondo”.

 


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