C’è un bellissimo cortometraggio di Victor Erice, La mort rouge, in cui il regista basco intreccia i suoi ricordi sulla scoperta del cinema e sulla San Sebastian della sua infanzia, e di quest’ultima con quella al presente, e di entrambe con lo spazio inventato sullo schermo, nella sala buia del Gran Kursaal. L’epitome di tutti gli sguardi su spazio per il piccolo Victor è il paese del Quebec in cui gli apocrifi Sherlock e Watson della serie con Basil Rathbone e Nigel Bruce capitano per risolvere uno dei loro casi d’epoca bellica in The Scarlet Claw, paese che per l’appunto reca il suggestivo quanto menagramo nome di La Mort Rouge.
Per il bambino quel fantomatico luogo canadese era la perfetta porta di fuga dall’era franchista, ma in fondo ogni fascinazione filmica non nasce come folgorante scoperta di luoghi da abitare, innumerevoli, rinchiusi su uno schermo grande o piccolo? Se rivado con la memoria ai primi amori, vedo, nei film con Cary Grant che divoravo decine di volte sui canali privati negli anni ’80, la casa delle sorelle Brewster di Arsenico e vecchi merletti o la locanda tedesca di Ero uno sposo di guerra, la sala stampa de La signora del venerdì o il sito in costruzione de La casa dei nostri sogni. Magari il teatro di To Be or Not to Be, certo l’Acme Book Shoop in cui Bogart-Marlowe incontra la libraia Dorothy Malone nel Grande sonno, e così via.
Ecco, un libro che mi piacerebbe scrivere e che non scriverò mai è quello sul concetto di spazio/luogo applicato al cinema di genere italiano, dalle antichità al polistirolo del peplum al west di Almeria dello spaghetti western, dalle lande gotiche dell’horror alle strade di piombo del poliziottesco. Anzi, forse questo sarebbe solo il prologo, perché il fulcro sarebbe lo spazio giallo del delitto inventato da Bava, Argento, Fulci e compagnia, quegli interni di design costellati di bottiglie di J&B e portacenere enormi, pronti a trasformarsi in labirinti di sangue, in seducenti trappole dell’occhio.