La storiografia ufficiale ha avuto gioco facile nel contrapporre gli spensierati Sessanta ai cupi Settanta, e non è raro imbattersi in metafore grossolane tipo “fine del sogno”, “inizio dell’incubo”, “amaro risveglio” e simili; per quanto sia una lettura parziale, tendenziosa e a conti fatti scorretta (in termini di conquiste sociali, i Settanta produrranno assai più che il decennio precedente), è difficile non provare affetto per quel tempo mitico foderato in Moplen in cui le spie, anziché pianificare stragi, sorseggiavano Whiskey Sour a bordo di una fuoriserie modificata, e dalle radioline Cubo della Brionvega fuoriusciva uno scalpitante shake. Di quell’Italia lì, felicemente ultrapop, sexy sì ma di una sensualità innocente, l’italo-lounge è – più che la colonna sonora – il manifesto in musica. Basta farsi un giro nell’immediata periferia di qualche grande città italiana, nei quartieri costruiti tra anni Cinquanta e Sessanta secondo quella che mi piace chiamare “estetica piccolo-moderna”: una specie di modernismo della piccola-borghesia, di poche pretese ma come innervato di un inguaribile ottimismo, che senza ricorrere alle firme di qualche architetto di grido (e anzi, il più delle volte prendendo spunto dai progetti di anonimi geometri) tentava il futuro a furia di pensiline sghembe, balconi ad angolo acuto, finestre a nastro con infissi in alluminio, citazioni international style per come poteva capirle un compassato impiegato statale. Passeggi per le strade di posti come il Nomentano a Roma e ancora pare di sentirli echeggiare, gli “shananà”, i “dabidà”, i “mahnàmahnà“, e gli “sciònsciòn”; un fuzz all’incrocio, un ritmo bossa girata la curva, un organo elettrico due isolati più in là, un coretto kitsch che si impunta sul Clavinet. E poi fine del sogno, inizio dell’incubo, amaro risveglio. Partono le note di L’attentato.