Come eravamo: Derrick, Klein e quell’altro

In occasione della dipartita di Horst Tappert (prima della scoperta postuma di certi altarini) ad Ale veniva spontaneo questo amarcord derrickiano.

Salutando il compianto Horst, che tante pre-cene allietò con le sue melanconiche inchieste per le strade di München, un pensiero ci sovviene.
Dunque: c’era il mitologico Stephan Derrick, e ok.
C’era il fido e un po’ stolido Harry Klein, col mascellone debitamente teutonico di Fritz Wepper, e d’accordo.
E poi? Vi ricordate di lui?

Ecco: a un certo punto del caso, metti che c’era da affrontare la cosa investigativamente più pallosa (che so, controllare sull’elenco quanti Otto Schumacher ci stiano a Monaco, verificare gli alibi degli 80 operai della fabbrica il cui padrone stronzo è stato or ora ammazzato, perquisire uno per uno i tifosi del Bayern che sciamano dall’Olympiastadion); ok, il buon Derrick chiedeva al devoto Willi Berger, questi rispondeva senza batter ciglio “va bene”, e mezz’ora dopo forniva i risultati del titanico sforzo, per poi scomparire lasciando Stephan e Harry a risolvere da par loro il caso.
Così, per 23 anni e 159 episodi Willy Schäfer si è portato a casa la pagnotta. Nient’altro si sapeva di Berger, nessuna caratterizzazione psicologica, aneddoto, approfondimento narrativo, niente di niente. Fosse stato ogni volta uno sbirro diverso, nulla sarebbe cambiato nell’economia del telefilm.
Però, però.
Alla fine ci si affezionò a quell’umile funzionario della polizia tedesca, a quell’eroico attore che invecchiò recitando con la massima neutralità un personaggio che non esisteva se non negli interstizi di un meccanismo poliziesco sempre uguale a sé stesso.

Onore a Willi/Willy.


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