Ex Libris 229 (la verità nascosta nei romanzi)

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Quando scrivo io cerco di esprimere il mio modo di essere nel mondo. Si tratta principalmente di un processo di eliminazione: una volta eliminate tutte le parole morte, i dogmi di seconda mano, le verità che non sono tue ma di altri, i motti, gli slogan, le sfacciate bugie del tuo paese, i miti della tua epoca storica; una volta tolto di mezzo tutto ciò che deforma l’esperienza e le fa assumere un aspetto che non riconosci e in cui non credi, ciò che ti resta è qualcosa che si approssima alla verità della tua concezione. È questo che cerco quando leggo un romanzo: la verità di una persona, nella misura in cui può essere restituita mediante il linguaggio. Quest’unico dovere, debitamente perseguito, produce risultati complicati e vari. Non è certo un appello all’autobiografismo, anche se ci saranno sempre autori che confondono il desiderio di verità personale del lettore con l’invito a scrivere un trattato, o un discorso, o un libro di memorie malamente mascherato in cui gli eroi sono loro stessi. La verità del romanzo è questione di prospettiva, non di autobiografia. È ciò che non puoi evitare di dire se scrivi bene. È la filigrana dell’io che traspare da tutto ciò che fai. È la lingua come rivelazione di una coscienza.


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