Siccome troppe volte in questi anni ho sentito gente che preferiva farsi consigliare i film dal pizzicarolo di fiducia che dai critici (detto sempre con una sfumatura di malcelato schifo, quel “critici”), gente contenta di spernacchiare a più non posso le ragioni della cultura alta in nome dell’arte popolare (laddove si faceva presto a tradurre popolare in populistica), gente per cui persino il titolo di studio pare essere diventato una sorta di stigma di cui diffidare a prescindere, forse, se la marea montante è quella del reverse snobism, è il momento di rivendicare un sano snobismo, uno snobismo attivo e propositivo. E lo dico da entusiasta del pop da tempi non sospetti, avendo avuto modo di polemizzare ove necessario con i sacerdoti dell’elitismo schifiltoso. Ma c’è tempo e tempo. C’è stato un tempo in cui era sacrosanto rivendicare la grandezza di certo cinema di genere di fronte alla cecità di molta critica. E c’è un tempo per puntualizzare sulle differenze e le specificità, di fronte all’avanzare di un magma uniformante e altrettanto cieco, solo fiero nel rivendicare la propria colpevole, integrata cecità.