Ha detto proustianamente David Byrne che “le canzoni sono come gli odori: riportano alla luce mondi, luoghi e momenti molto specifici.”
D’altronde ha detto Carl Wilson che una canzone la si può amare “per quelli che si ritengono la sua profondità, l’eleganza formale o il valore duraturo”, “per la sua natura innovativa, per il suo essere una fresca variazione rispetto alle solite vecchie cose”, “per il suo essere fatata, per la storia sociale che quell’anacronismo rivela”, “per il suo sentimentalismo, che fornisce un allenamento per le emozioni”, “per la sua estraneità, per lo scorcio di variabilità umana che ci apre”, “per la sua esemplarità”, “perché rappresenta un luogo, una comunità, o anche un’ideologia”, “per la sua popolarità, per il collegamento con la folla che fornisce” ecc. ecc.
Alla fine (provvisoria) del percorso, tante (troppe?) sono le canzoni che albergano dentro di me, che mi hanno formato, dato linfa, sangue, pensieri e umori nella buona e nella cattiva sorte. Da onnivoro culturale post modernista, tanti (mai troppi) sono i giri del mondo, via fado o cantopop, bossanova o chanson che mi sono concesso.
E allora, mi vengono in mente, così, sparsi e binari, altri titoli.
Valkyrie che accompagna le evoluzioni della squadriglia della luce in un film che non farò o The Taxi Ride che ha ispirato la scena di un romanzo che prima o poi finiremo.
Train in Vain, non dichiarata sulla tracklist di London Calling o Red Sector A dal vivo su A Show of Hands.
Hardly Wait eseguita da Juliette Lewis in Strange Days o La mer in una scena di Così ridevano.
Un ramito de violetas e il ricordo di Cecilia schiantata contro un carro o The Saddest Song e il ricordo di Mark Sandman caduto a Palestrina.
Un’altra vita nella versione di Alice, Águas de Março in quella di Elis Regina.
“tutti quelli colpiti da stupore” in Le ragazze di Osaka o “cospargimi di olio di mandorle e vanità” in Parole di burro.
Ecc. ecc.