5 incipit (non miei)

Il segno dei quattro

Sherlock Holmes tolse una bottiglia dalla mensola del caminetto e una siringa ipodermica da un lucido astuccio di marocchino. Con le lunghe dita, bianche e nervose, avvitò all’estremità della siringa l’ago sottile e si rimboccò la manica sinistra della camicia. I suoi occhi si posarono per qualche attimo pensierosi sull’avambraccio e sul polso solcati di tendini e tutti punteggiati e segnati da innumerevoli tracce di iniezioni. Infine si conficcò nella carne la punta acuminata, premette sul minuscolo stantuffo, poi, con un profondo sospiro di soddisfazione, ricadde a sedere sulla poltrona di velluto.

(che meraviglia! Provate voi a iniziare un romanzo con l’eroe, che avevate lasciato l’ultima volta vittorioso sul male, impegnato a iniettarsi in vena, in un’operazione minuziosamente descritta, una soluzione di cocaina al sette per cento. Altro che le cerebrali perversioni di Des Eissentes o Andrea Sperelli. Certo, all’epoca Holmes non era ancora il mito in cui l’avrebbero trasformato i racconti sullo “Strand Magazine”, ma l’audacia di Conan Doyle rimane entusiasmante.)

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andature greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto “latino”, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela; una certa conoscenza degli uomini; e anche delle donne.

(Gadda schizza il ritratto di don Ciccio, cosa volere di più?)

Tlön, Uqbar, Orbis Tertius

I

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d’un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejía; l’enciclopedia s’intitola ingannevolemente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell’Enciclopaedia Britannica del 1902.

[…]

II

All’Hotel de Androgué, tra i caprifogli effusivi e il fondo degli specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarrilles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d’irrealtà; morto, non è nemmeno più il fantasma che era stato.

(gli specchi, gli abissi, gli aggettivi di Borges)

Abbiamo sempre vissuto nel castello

Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita Phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti

(Shirley Jackson dimostra come impostare una pervasiva atmosfera gotica e una voce narrante indimenticabile)

L’incanto del lotto 49

Una sera d’estate Mrs Oedipa Maas, tornando a casa da un ricevimento Tupperware dove la padrona di casa aveva forse largheggiato un po’ col kirsch nella fonduta, scoprì di essere stata nominata esecutore o forse, più esattamente, esecutrice testamentaria dei beni di una certo tal Pierce Inverarity, ras delle agenzie immobiliari californiane, il quale era stato capace di mangiarsi due milioni di dollari a tempo perso ma aveva nondimeno lasciato crediti tanto numerosi e imbrogliati da renderne il riordinamento un incarico più che onorario. In piedi nel living room, ferma sotto lo sguardo insistente dell’occhio morto e verdastro della valvola termoionica del televisore, Oedipa pronunciò il nome di Dio invano cercando di sentirsi quanto più ubriaca poteva. Ma non servì a niente. Pensò a quella stanza d’albergo a Mazatlán, allo sbattere d’uscio che solo un momento fa chiudendosi, pareva, eternamente, aveva svegliato duecento uccelli nell’atrio; a un’alba all’aperto sopra la collina della biblioteca della Cornell University, alba che non era stata vista da anima viva perché la collina guardava a occidente; a un’arida aria sconsolata del quarto movimento del Concerto per Orchestra di Bartók; a un busto di Jay Gould, imbiancato a calce, che Pierce teneva su una mensola sopra il letto talmente stretta rispetto alla scultura che la paura dell’eventuale capitombolo addosso a loro due le era aleggiata sempre intorno. Era morto così, si chiese, tra i sogni? maciullato dall’unica icona della casa? Il pensiero riuscì solamente a farla ridere, a voce alta e incontenibile: Sei proprio sfasata, Oedipa, si disse, o disse alla stanza – che lo sapeva.

(un concentrato in purezza della narrativa totale di Pynchon)


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