Ex Libris 196 (Eros e Priapo I – atti)

Eros

L’atto ci coscienza al quale vogliamo e dobbiamo pervenire comporta un’analisi della furbizia umana che resulti la più permeante possibile. Noi vogliamo ricostituire, meglio anzi, costituire una buona società: facciamo dei bei ragionari: di begli edifizi leviamo, con tutte torri, nel vacuo de’ nostri sogni più sognati: e codesta società utopica la scodelliamo calla calla dalla pignatta delle nostre mejio intenzioni, de’ nostri dilicati sentimenti, de’ nostri encomiabili proponimenti, del nostro prurito di giustizia: che d’è un pruritino, fin tanto le son parole, de’ più piacevoli a grattare. Ci si accatta quasi più gusto a iscrivere la storia del Logos, massime poi la futura e inzognata, che a grattarsi le spalle a’ cantoni.
Ma te ti dimandi mai, o a vespero, o a mattutino, quanti di noi fussino o in facto sono e’ ladri? quanti i lor complici? quanti gli assassini e predoni? quanti i concussori? quanti i bari? quanti i simoniaci e compromettitori, agli uffizi e a le chiese? quanti i maquero, sive parasiti a le poarine? quanti soltanto anche i poltroni, i giuggioloni, i pavoni beati a passeggio in sul Vittorio Emmanuele? quanti i bevitori di bitter? quanti i cik-cil, ma dicano in brache larghe e ‘n camicia porpurina d’aver udito sparo a Bezzecca? Dico quanti percentualmente?Te tu fumi, pùf pùf, dandoti di grand’arie per questo. E allor che vai a bottega di tabacchi, o entri, pavone, il caffè, là dove c’è la tu’ nicchia ad accoglierti, con il nimbo di fil di ferro già predisposto a nimbare la santità gloriosa d’i’ccervellone d’un tanto piccio, be’ te tu t’hai mai noverato tutti l’omìni che vi stanno? E zervinotti di poche castella, e di meno voglia a murarne? E chi gioca, mesto, le dame: e chi scaracchia: e chi si gratta i ginocchi: e chi non dice nulla, e t’isguarda, perché la Sibilla non dice se non dimandata e remunerata ad anticipo, e anco quel poco per ambage. Ed è all’ore di luce e di lavoro: che in sull’opere si batte ferro: e che il capo maestro garrisce i giovani d’in sul palco lassù. E di codeste iscioperate razzumaglie te tu vuo’ rizzar la repubblica perfetta? O Plato, cùrati.

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L’atto di conoscenza, in genere, ha da radicarsi nel vero, cioè in quel quid ch’è stato vivuto, e non sognato, da le genti: ha da radicarsi in quel ch’è suto l’enunciato della storia, e con potenti ed onnipermeanti radìche: sì come di faggio, d’antico faggio, in ne’ cui rami superni fragorosamente, ma vanamente, lo stolto vento prorompe. Non può chetarsi a un bel sogno, o all’astrazione della teoretica pigrizia, da che l’omo buono è condutto, pur nolendo di suo cuore, ad errore. Dacché l’astrarre con abuso di lambicchi arbitratamente dagli unvoluti ed innumeri motivi della causalità una decina magra magra di preferiti motivi, coartandone d’una iscrittura di storia vera e vivuta una finta, e di poco inchiostro annotata e l’addarsi a filosofare e giostrare intorn’a quelli, e ‘l mingervi sopra tuttodì da man manca non costituisce filosofia, né storiografia, né politica: sì mero arbitrio, gnoseologico e pratico. Il desiderio e la prescia di edificare (e vada per i difici, as you like it!) non devano bendarci gli occhi sulla natura del terreno, quando l’Arno, da sotto, lo isvuota: sui “mezzi economici”: sui materiali e stromenti disponibili, cioè qualità vere (e non finte) delle anime, delle animacce nostre balorde: e men che meno sui limiti, alquanto scarsi all’opere e corti all’evento, o ritardati ad imagine di casa aliena, della nostra perizia di pappagalli, e sagacità di architetti da Babele.


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