Ormai quasi asciutto, senza più museruola, il bastardo nero giaceva sulla paglia – con un tubo flessibile, connesso e una bombola d’ossigeno, accanto alla bocca dischiusa – in un cantuccio della gabbia situata all’estremità del reparto cani. Una targhetta sulla porticina della gabbia recava lo stesso numero, 732, ch’era impresso sul collare di plastica verde del cane; e, sotto il numero, si leggeva: “Condizionamento ad aspettativa di sopravvivenza (Immersione in acqua). Dr. J. R. Boycott”.
Nel reparto v’erano, in tutto, quaranta gabbie, sistemate su duplici file. Tranne un paio, che erano vuote, tutte quante le gabbie contenevano cani. Le pareti delle gabbie erano formate da reti metalliche. La maggior parte dei cani si trovavano quindi ad avere tre vicini di gabbia. La gabbia del 732 però era l’ultima della quarta fila, e confinava con il muro perimetrale; inoltre la gabbia accanto era vuota; così il 732 aveva un solo vicino di prigionia; il cane della gabbia adiacente alla sua, nella terza fila. Questo cane era, adesso, nella sua cuccia (ogni gabbia conteneva una cuccia) e sulla porta della gabbia la targhetta recava scritto: “815. Chirurgia cerebrale. Gruppo D. Mr. S.W.C. Fortescue”.
Il reparto era tutto pervaso dall’odore dei cani, misto a quello della paglia fresca e del piancito lavato con acqua e creosoto. Dalle alte finestre, provenivano però altri odori, portati dal vento: felci e mortella, letame di pecora e vacca, foglie di quercia, ortiche… e l’umidità del lago al calar della sera. L’aria imbruniva, e le lampadine – una alla fine di ciascuna fila – anziché diffonder luce sembravano formare quattro chiazze giallastre, troppo dure per sciogliersi al dolce crepuscolo, e da esse i cani più vicini stornavano gli sguardi. Regnava un sorprendente silenzio, nell’edificio. Qua e là un cane raspava fra la paglia. Uno, un bracchetto con una cicatrice attraverso la gola, guaiva di tanto in tanto nel sonno; mentre un levriero con tre sole zampe e un moncherino bendato saltellava goffamente intorno, urtando contro la rete metallica e producendo un rumore non dissimile a quello prodotto con le spazzole da un batterista jazz. Nessuno dei trentanove cani del reparto, però, era tanto vivace o sufficientemente disturbato o stimolato da abbaiare, sicché i tranquilli rumori della sera guizzavano distintamente fino alle loro orecchie.***
In alcuni pacchetti erano racchiusi, misti a fegato e a trippe, farmaci stimolanti atti a blandire il sonno o a rendere capace chi l’ingoiasse di inaudita resistenza, prodigiosa voracità irrequietezza senza pari. Altri contenevano filtri paralizzanti, i quali sospendevano la percezione degli odori, dei sapori, dei colori o dei suoni; analgesici i quali impedivano di provar dolore, sicché il soggetto seguitava ad agitare la coda mentre un ferro rovente gli veniva passato sulle costole; allucinogeni i quali riempivano la mente di più demoni di quanti ne contenga il vasto inferno, capaci altresì di trasformare il forte in debole, il coraggioso in codardo, l’intelligente in idiota. Alcuni procuravano malattie, pazzia o mortificazione di questo o di quell’organo vitale; altri curavano, alleviavano un male o servivano a non curare né alleviare malattie già provocate. Alcuni distruggevano il feto nell’utero, altri la capacità di ovulare, il potere di concepire, di portar avanti una gestazione.
Insomma, il dottor Boycott non avrebbe neppure esitato a tentare la resurrezione della carne se solo avesse ritenuto di avere una probabilità, su mille, di riuscita. Era un esperto, un professionista qualificato, pieno di iniziative: i suoi “sudditi” non aveva alcun diritto legale; e la curiosità intellettuale è, dopo tutto, un desiderio come un altro. Inoltre, chi avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi che il dottor Boycott chiedesse a sé stesso, in nome della razza umana, non già “Fin dove può giungere la scienza?” Bensì “Fin dove è giusto che scienza arrivi?” La scienza sperimentale è l’ultimo fiore dell’ascetismo e il dottor Boycott era, in effetti, un asceta un osservatore di fenomeni ed eventi sui quali non dava alcun giudizio di valore. Egli rappresentava, anzi, un paradosso, poiché infatti partiva da nobili intenti ed era convinto di adoprarsi – con il massimo distacco – a beneficio dell’umanità.***
Quel luogo era pieno di uccelli. Si sentiva tutt’intorno l’acre odore dei loro escrementi, li si udiva agitarsi debolmente nel buio. Un piccione lì accanto si beccò sotto l’ala, emise un sonnacchioso “cu-cu-rucù” e poi tacque di nuovo. Dovevano esserci molti, molti uccelli. Soffermandosi ad ascoltare, entrambi i cani ebbero l’impressione di trovarsi in una foresta, le cui foglie fossero tutti piccioni, appollaiati sui rami, foglie stormenti pian piano nell’oscurità. Qua e là un ramo sembrava scricchiolare, qua e là cadeva in terra qualcosa di simile a una bacca, a una pigna, a una nocella.
Si trovavano infatti nella piccionaia, ch’era per così dire il serbatoio di uno dei progetti più ambiziosi di tutto l’Istituto. Si trattava, niente meno, di scoprire il segreto dei piccioni viaggiatori: da cosa dipenda e come funzioni il loro istinto, il loro senso dell’orientamento. Impresa, senza dubbio, prometeica, dacché gli uccelli stessi si son sempre accontentati di ignorare la questione. Questi esperimenti erano a cura del dottor Lubbock, collega e amico di Boycott; e la loro complessità era impressionante. Nel reparto vivevano centinaia di uccelli, sistematicamente divisi in gruppi e alloggiati in diverse gabbie, e ognuno di essi era come un grano di corallo nell’immane scogliera di cosciente sapienza che Lubbock avrebbe costruito per il bene, per il progresso, per l’edificazione – insomma, per una cosa o per l’altra – del genere umano. Ad alcuni uccelli veniva tappato un occhio – o tutti e due – mediante speciali congegni; ad altri veniva distrutta la sensibilità delle narici, delle zampette, delle penne, dei becchi, dei polmoni, prima di fargli prendere il volo; ad altri ancora venivano applicate lenti a contatto per distorcere la loro visione; altri infine avevano subito particolari condizionamenti miranti a confonderli quando fossero esposti a questo o quel fenomeno atmosferico. Nella gabbia 19, ad esempio, piovigginava di continuo. Nella 3 c’era luce ventiquattro ore al giorno. Nella 11, oscurità perpetua. Nella 8, un sole simulato si muoveva in senso inverso da ovest a est. Nella 21 faceva un caldo torrido. Un freddo glaciale regnava nella 16A (così chiamata onde evitare confusione con la 16, i cui occupanti eran morti tutti congelati ed erano stati sostituiti dal primo all’ultimo). Nella gabbia 32 soffiava notte e giorno un vento costante nella stessa direzione. Gli uccelli nati in tutte queste gabbie non conoscevano altre condizioni meteorologiche, fino al momento in cui venivano rilasciati. La gabbia 9 conteneva un cielo finto in cui le varie costellazioni erano riprodotte in modo disordinato. In fondo a questo reparto c’erano gabbiette contenenti uccelli nel cui cervello erano state innestate particelle magnetiche, di polo negativo o positivo. Infine c’erano piccioni che eran stati assordati, lasciando loro intatte tutte le altre facoltà.
Da questi esperimenti erano state ricavate, finora, utili informazioni, dalle quali risultava, in sostanza, che alcuni piccioni menomati riuscivano a trovare la strada di casa, altri no. Molti, infatti, eran volati in linea retta verso il mare finché erano periti; e ciò era molto interessante. Se ne deduceva infatti, in primo luogo, che gli uccelli le cui facoltà sono difettose risultano meno capaci di orientamento di quelli che ce l’hanno intatte; e in secondo luogo che, in ogni dato gruppo, c’erano piccioni in grado di orientarsi, altri non in grado di orientarsi. Sei mesi addietro, Lubbock aveva preso parte a un programma televisivo e aveva illustrato agli spettatori le grandi linee degli esperimenti da lui condotti, e il sistema mediante il quale varie possibilità venivano via via scartate. Dopo di allora, si erano raccolte importanti prove a sostegno della teoria secondo la quale i piccioni viaggiatori possiedono un istinto inesplicabile in termini scientifici. Questa era nota a Lawson Park, spiritosamente, come la teoria “RNK”, da un’osservazione che Tyson aveva fatto una volta parlando con Lubbock: “Reckon Nobody Knows” (Mi sa che nessuno lo sa).***
Mister Powell, constatato che la scimmia isolata nel cilindro da tredici giorni era tuttora viva, se non proprio vegeta, si mise a esaminare un rapporto sui “bracchetti fumatori” e abbozzò la brutta copia di una lettera all’azienda committente. Quest’ultima era infatti alla ricerca di una sigaretta innocua, impresa di estremo interesse scientifico e di grande potenziale beneficio per il genere umano. Certo, a chiunque è consentito di smettere di fumare, ma non tutti ci riescono, quindi si compiono esperimenti su animali vivi, sperando di trovare qualcosa di meno nocivo per gli esseri umani. Anzi questo esperimento veniva definito, dalla società committente – una grande industria chimica – la ICI (Imperial Chemical Industries), come “una decisiva salvaguardia” per gli uomini: il che dimostra che gli esperimenti stessi costituivano una salvaguardia migliore che smetter di fumare.
I cani, muniti di una speciale maschera, venivano obbligati a inalare il fumo di trenta sigarette al giorno. (Mister Powell aveva pronunciato una battuta di spirito al riguardo, durante una conferenza: “Più di quanto io possa permettermi di fumare!”) Era previsto che, in capo a tre anni, quei cani venissero uccisi per farne l’autopsia. Intanto, per fortuna, la ICI manteneva una rigida linea difensiva contro le sciocche ragioni sentimentali avanzate dalla signorina Brigid Brophy, della Lega contro la Vivisezione. “Si prenderà ogni precauzione” era scritto in un comunicato della ICI “affinché gli animali non abbiano a soffrire inutilmente, e, ove possibile, si utilizzeranno animali meno nobili, come i topi e i ratti.”
“Bravi, bravi” mormorò mister Powell, scorrendo le carte della pratica. “Certo, i ratti sono, in effetti, animali intelligenti e sensibili, ma nessuno li ama, però, i ratti. È un peccato che non si disponga di iene e sciacalli, per questi esperimenti sul fumo. Nessuno – in tal caso – ci darebbe noia.”