Forse al giorno d’oggi non fa tanto fino dirlo, ma non c’è niente da fare, sono cresciuto a pane e progressive. E nel prog, le suite sono come lo sciroppo d’acero sui pancake, il tripudio e l’estasi insomma. Quante decine di minuti della mia vita avrò passato a crogiolarmi nei caleidoscopici cambi di tempo di Supper’s Ready o a delibare l’intricato crescendo di Lizard; a seguire le volute dell’organo di Dave Sinclair in Nine Feet Underground o quello di Dave Greenslade nella Valentyne Suite; a farsi accompagnare dagli ariosteschi Di Giacomo e Nocenzi nel Giardino del mago o a penetrare con Peter Hammill e compagnia nelle nebbie apocalittiche di A Plague of Lighthouse Sleepers?
Alla fine della fiera, comunque, saran pomposi, bombastici e conciati in modo discutibile quei cinque lì, epperò la suite prog per eccellenza rimane Close to the Edge, dall’intro panteista alla più (Bruford) o meno (Squire) delicata potenza di fuoco della sezione ritmica, dai ricami furibondi di Howe alle vocalizzazioni mai così ispirate di Anderson fino all’assolo orgasmico di Wakeman e al riassorbimento ciclico della musica nel respiro universale, over the edge.