Per un capriccio che ben si addiceva a una fanciulla annoiata da troppe comodità e da troppe ricercatezze, ma forse anche per contraddire lo zio di cui derideva i gusti borghesi, miss Alicia aveva preferito a case più raffinate quella villa, i cui padroni erano in viaggio e che per molti anni era rimasta disabitata. Le piaceva la selvaggia poesia di quel giardino abbandonato e quasi inselvatichito. Nell’ardente clima napoletano, tutto vi era cresciuto prodigiosamente: aranci, mirti, melograni, limoni si erano dati alla pazza gioia e i rami, non avendo più da temere il falcetto del potatore, si davano la mano da una parte all’altra del viale o s’infilavano familiarmente nelle camere da qualche vetro rotto. Non era la tristezza di una casa deserta, come nel nord, ma la scatenata allegria e la petulante vivacità della natura del sud abbandonata a sé stessa. In assenza del padrone, le piante esuberanti si concedevano il piacere di un’orgia di foglie, di fiori, di frutti e di profumi. Si riprendevano lo spazio che di solito l’uomo gli contende.