Lindsay Buckingham diceva in un’intervista a “Rolling Stone” che i Fleetwood Mac sono un gruppo eminentemente disfunzionale, al contrario dell’altra superband californiana degli anni Settanta, gli Eagles. E in effetti verrebbe più da paragonarli a un altro collettivo di coppie scoppiate che in quegli stessi anni come loro vendeva vagonate di dischi, chi altri se non gli Abba? Da una parte l’equilibrio formidabile tra il genio ai limiti dello schizoide di Lindsay, sorta di Brian Wilson del Laurel Canyon, l’intensità da sacerdotessa di velluto di Stevie Nicks, e, come asse d’equilibrio re le opposte tensioni, la serena forza di Christine Perfect McVie, la tranquilla signora inglese col blues nelle vene. Dall’altra la torrenziale vena melodica di Ulvaeus e Andersson a riempire le ugole di Agnetha e Anni-Frid. Entrambi i collettivi di precaria solidità sapevano farti percepire l’inesorabile necessità di certe canzoni che pensi di conoscere da sempre, perché non possono che esistere, basta che qualcuno prima o poi le colga, e le immergevano nella vibrante energia di legami (la chain da non rompere) sull’orlo, e oltre, del breakdown.
Guardate il gioco di sguardi live tra Stevie e Lindsay in quel sublime psicodramma che è Silver Springs; pensate all’urgenza di quest’ultimo di dirle che può andarsene per la sua strada; o i vari messaggi in codice di Christine, da Songbird a Little Lies; e d’altronde riflettete sulla sostanza di puro dolore che innerva apparenti ear candys come SOS o The Winner Takes It All, When All is Said and Done o The Day Before You Came.