Aveva quasi un’ossessione per come le città avrebbero potuto essere diverse: aveva film interi in testa, da sostituire alle fotografie desolanti delle cose come erano.
Gesticolava nel vecchio capannone pieno di polvere, e mi sembrava di sentire la sofferenza e la rabbia che doveva aver provato a crescere da bambino povero a Milano. Una volta mi aveva raccontato un suo ricordo di quando aveva quattro o cinque anni: lui trascinato per mano da sua madre lungo il viale grigio della circonvallazione, nella nebbia satura di gas e pulviscolo carbonioso. Mi aveva detto “Non c’era un solo odore o colore o sensazione tattile piacevole a cui appigliarsi. Mia madre mi trascinava e facevo resistenza, e tutto quello che avevo intorno era così spaventosamente sgradevole che avrei solo voluto cascare morto sul marciapiede”.
Doveva essere nato allora il suo odio per i materiali e le forme innaturali, le gabbie architettoniche e le alterazioni chimiche degli alimenti. Secondo lui l’origine di quasi tutto l’orrore del mondo era nella civiltà industriale che aveva brutalizzato lo spazio e distrutto i ritmi e gli equilibri complessi della vita per adattarli a quelli delle macchine.**
[…] io e Guido guardavamo il paesaggio, intaccato e aggredito e devastato man mano che ci avvicinavamo alla città: gli svincoli e sovrappassi assurdi a quattro corsie, le enormi scatole di cemento dei piastrellifici e mobilifici e salumifici, gli insediamenti periferici costruiti per speculare sullo spazio e sui materiali e sulle forme e sulla vita di chi ci abita. A un certo punto Guido ha detto “Noi scappiamo via e questo schifo continua a diffondersi, non c’è nessuno che prova a fermarlo”.
Ha detto che forse l’unica cosa da fare era cercarsi un’isola come avevo fatto io, proteggerla finché ci si riusciva. Gli ho risposto che la mia non era solo un’isola; che forse producendo cereali privi di veleni si poteva influire in minima parte sul mondo. Lui ha indicato la cupola atroce di un lampadificio circondato da un doppio muro di cemento, ha detto “Se volessimo influire dovremmo far saltare questa roba con il tritolo. Non è certo la farina biodinamica che cambia le cose”. Gli ho risposto “È anche la farina biodinamica”.**
“Un tempo la gente che viveva nelle città ne era orgogliosa. Tutti si sentivano partecipi di una vista, o dei materiali di un muro, di una prospettiva o di uno slargo riparato. E gli abitanti potenti e ricchi si davano da fare per il luogo nel suo insieme. Lo consideravano una loro estensione, la sua bellezza generale era anche la loro gloria privata”.
Ne parlava con una strana nostalgia appassionata nella voce, come se avesse conosciuto le città di allora e chi le aveva costruite. Diceva “Adesso sono solo dei centri di saccheggio di energie umane, e gli abitanti ricchi e potenti vivono in mezzo ai loro stessi detriti, cercano solo di blindarsi e impermabilizzarsi più che possono dall’orrore che hanno prodotto, scapparsene lontani alla prima occasione. E la gente accetta di adattare i propri desideri, farseli snaturare e indirizzare su oggetti, su automobili e vestiti e apparecchi elettronici e giocattoli inutili che servono a far dimenticare cosa è diventato il mondo”.
Bello!
Conosco pochissimo Andrea De Carlo, ho letto solo Di noi tre.
Pure noi, abbiamo letto solo questo, perché è tra i libri preferiti di una nostra cara amica. La tematica della rottura del rapporto umano col proprio umwelt, e del trovare un altro modo di rapportarvisi (decrescita – anche ancora non si chiamava così – autoproduzione) è molto molto interessante.
Due di due credo sia tra le cose migliori che De Carlo abbia mai scritto
Incuriosita dall’estratto che avete postato, mi sono decisa finalmente a leggerlo. Mi sta piacendo molto. Tante riflessioni interessanti e che sento affini alla mia maniera di vedere il mondo.
Forse a tratti affiora un po’ di automatismo, o anche sto trovando leggermente sopra le righe la maniera in cui Mario inizia a lavorare alla sua casa in Umbria (quando ha imparato a fare lavori di questo tipo? Ha collegato tubi per la luce e per l’acqua… trovo poco plausibile che uno che ha abbia sempre fatto lo studente ci sia riuscito…), ma comunque rimane una lettura godibilissima, almeno fin dove sono arrivata.
Mh, non c’ho proprio pensato, ma d’altronde devo ammettere non sono uno che mette la verosimiglianza in cima alle mie preoccupazioni (a meno che non parliamo di thriller a meccanismo).
Ieri sera, andando avanti con la lettura, ad esempio ho notato un errore davvero grave, dovuto certamente a un’ignoranza diffusa che noi antispecisti conosciamo bene.
Mario e Martina a un certo punto dicono: potremmo prendere una mucca così da avere il latte (come se la mucca, da sola, potesse dare il latte). E poi invece optano per una capretta, la prendono e dicono che così lei le forniva il latte.
Non è chiaro come facesse da sola a produrre il latte, visto che non parla di capre maschi, né di capretti piccoli nati.
Poi, più avanti, parla di una gravidanza della capra, ma solo molto più avanti.
Saranno quisquilie, ma io le noto 😀 Ormai ogni critica per me diventa una critica antispecista.
Al di là di tutto, mi piace molto come il tema dell’autoproduzione viene trattato con semplicità, ossia come possibilità effettiva attuabile da ciascuno di noi e come ci sia una visione molto precisa di una società diversa e possibile da realizzare.
Giusto, giusto. Infatti l’aver isolato quella possibilità nelle utopie post-sessantottine è l’elemento che più mi è piaciuto.