C’è un nuovo libro di Loredana, Questo trenino a molla che si chiama il cuore. La collana è Contromano di Laterza, che si occupa dello spirito dei luoghi rivelato tramite la scrittura (ne avevo già letto qualcuno, quello di Carofiglio su Bari, della Stancanelli su Firenze, e poi Vento forte tra Lacedonia e Candela di Franco Arminio l’ho anche citato in Febbre verde).
Ci sono dentro tante cose, nel Trenino, legate tra loro da fili a volte invisibili ma tesissimi. C’è la descrizione di una terra di confine, la valle del Chienti tra Marche e Umbria, che è anche confine tra vita e morte, terra di mezzo tra ciò che è stato e non sarà più e ciò che poteva essere e invece è stato travolto dalle scosse del terreno, da un’idea balzana di futuro. C’è un bilancio personale rispecchiato nel profilo apparentemente immutabile del luogo natale, mutato a forza dalla catastrofe “naturale” prima (il terremoto del ’97) e da quella innaturale dopo (la devastante superstrada della Quadrilatero): quindi l’illusione di un tempo immobile e ciclico che viene sfregiato da un’illusione ben più maligna, quella di un progresso declinato nelle ben note forme dello sfruttamento a tappeto del territorio (se vogliamo, l’illusione delle piccole vite e delle grandi opere). C’è un senso di responsabilità nei confronti delle memorie proprie e altrui, estratte dalle falde di quello stesso (o stessi) tempo(i) che si rincorrono, slittano, si frantumano e infine sovrappongono in un palinsesto inestricabile di segni, dove si nominano e ricordano ogni fonte, ogni morte, ogni evento sismico della terra e del cuore, storie di famiglia e di contrada fuse con la Storia, morti passati, viventi transitori. C’è l’atto sacro e pericoloso del conferire un nome, dello scegliere un’identità. C’è, soprattutto, il ricordo di Chiara Palazzolo, che ispira a Loredana le pagine più commosse, brucianti, ed è il vero nume tutelare dei percorsi esoterici e sciamanici sui monti Sibillini. Suo è il volto che si sovrappone a quello di tutte le dee e profetesse che hanno il potere della parola e la facoltà di circolare tra i mondi (poi normalizzate dall’agiografia di sante e madonne – ma non sono in fondo i racconti di miracoli un sottogenere della letteratura fantastica?).
C’è infine, a collegare il tutto, a tentare un bilancio, la dialettica tra la mission della collana (corpo in luogo a testimoniarlo) e il tema segreto (in ogni senso) del saggio, l’eteronimia (e quindi la sottrazione del corpo, la sua metafisica assenza). Perché qui l’autrice fa il suo coming out e rivendica di essere stata, negli anni, una e bina, la saggista della trilogia femminista e la scrittrice della trilogia demonica, Loredana Lipperini e (è) Lara Manni. E allora il compianto per la (Serra)valle perduta è quello per Chiara e Lara, sorelle di immaginazione e di tenebre, morte lo stesso anno fatidico. I cambiamenti dei luoghi e dell’anima sono irreversibili, e non si ritorna dalla morte, come fece Mirta-Luna. Ma ci si può riconciliare con la propria casa abbandonata, e col proprio doppio.
(Io me li ricordo bene i giorni di Lara Manni. A parte leggere i suoi libri, seguivo il blog e il profilo facebook, e mi ricordo quando la notizia della supposta “vera” identità di Lara iniziò a circolare. Ebbene, quello che a me pareva, se confermato, un epic win (scoprire che due autrici ammirate sono in realtà la stessa persona), e l’esatto contrario della furbata commerciale (dato che non è vero che l’una recensiva l’altra, e farsi passare per una esordiente quando si possiede un nome di prestigio in campo culturale sarebbe semmai un esempio di anti-marketing), stimolava in tant* un risentimento strisciante, a volte strumentale, a volte incomprensibile. Il gioco dell’eteronimia non fa che mettere in luce il cortocircuto di verità e finzione che è proprio della letteratura, ne è il suo tema innato, direi, ma sembra provocare un senso di mancamento (che si traduce in percezione di tradimento) quando si usa un nome che non è il proprio, e si toglie il sostegno del proprio corpo al corpo di inchiostro che dà forma ai libri. Una dialettica, quella tra ortonimia ed eteronimia, fluttuante e insidiosa, da Pessoa (che fornisce il titolo al volumetto) e Romain Gary a Elena Ferrante e Lara Manni: avere “solo parole” e niente passaporto, che libertà, e che fatica per conservarla.)