Nelle ultime settimane ho fatto una piccola immersione nel pensiero di Dario Martinelli. Dario è uno studioso di semiotica che lavora da anni dalle parti del Mar Baltico, tra Finlandia e Lituania, e ha incentrato le sue ricerche su un tema che da queste parti ci sta molto a cuore, ovverosia il rapporto tra animali umani e non umani. Nel suo saggio più recente, Lights, Camera, Bark!, punta un riflettore sulla rappresentazione dei secondi da parte dei primi in ambito cinematografico, mentre in precedenza aveva esplorato in diversi testi (il compendio italiano è Quando la musica è bestiale per davvero) il campo semi-vergine della zoomusicologia, che estende il concetto di musica “degli altri” dell’etnomusicologia alla musica extraumana. Nel frattempo Dario è anche diventato padre, e ha approfittato della rinascita delle possibilità che ogni nuova nascita prospetta per mettere ordine nel suo impegno animalista quotidiano, e facendo proprio uno schema collaudato ha steso la sua (in realtà sarebbero “le sue”) Lettera a un futuro animalista. Ebbene sì, il serio studioso (che d’altronde non perde occasione per condire il rigore delle disquisizioni scientifiche con uno spirito mordace e pronto alla battuta) è “anche” un attivista, e più volte ricorda i sorrisetti da “ah, ora si capisce tutto” che qualche collega sistematicamente gli rivolge quando a pranzo, magari durante un convegno, scopre la sua scelta vegetariana. Come se amare l’“oggetto” dei propri studi non sia un incentivo ad affrontarli con passione, piuttosto che una minaccia per l’oggettività della ricerca (poi dicono perché ce l’hai con lo scientismo, con quelle derive laboratoriali in cui l’asetticità totale non è che uno schermo per celare pregiudizi rimossi ma aleggianti che, quelli sì, inficiano la scientificità dei procedimenti).
Il discorso, quindi, articolato nelle sue diverse branche accademiche, divulgative ed educative, è in realtà lo stesso, un dialogo gioiosamente interspecista che allarga le possibilità di discipline nate in ambito umanista al più vasto universo dei viventi. Come gli strumenti della semiotica possono analizzare in che modo gli animali umani nella loro arte in movimento rappresentano quelli non umani, così l’approccio zoomusicologico ci invita a considerare la musica (concetto inafferrabile quant’altri mai) come fenomeno zoologico più che antropologico, superando una dicotomizzazione rigida degli ambiti “culturale” e “naturale”, e una visione altrettanto rigidamente antropocentrica del dato musicale, per aprirsi a una estetica dell’extraumano. Il passaggio dall’antropocentrismo al biocentrismo, da un approccio etic (in cui il punto di vista dell’osservatore domina sovrano) a uno emic (che cerca di comprendere il punto di vista di chi produce il fenomeno oggetto di studio), consente di evitare quel vizio del pensiero, ancora troppo diffuso, sintetizzabile nel “solo gli umani fanno questo” (chi ce l’ha più lungo, insomma). Come dice Martinelli in una delle sue Lettere, “quello che dovrebbe fare un animale ragionevole, al fine di non sembrare un animale patetico, è provare a comportarsi come un animale prudente, e – almeno per amor di originalità – trattenersi dal formulare continuamente ipotesi dualiste e speciste” nate solo dall’incapacità di leggere come uno stesso fenomeno si declini negli altri animali a seconda del loro umwelt (campo sensoriale e operativo specie-specifico), inducendo nell’errore di superbia del ritenersi gli “unici”, magari i “superiori”.
In realtà forse tutto il rapporto tra “noi” e gli “altri” animali – prima e dopo Darwin – potrebbe stilizzarsi nell’elenco delle cose che pensavamo (a torto) ci distinguessero dagli altri, l’indifferenziato animot in cui generalizziamo tutte le specie che non sono il sapiens, come fosse in atto una perenne partita (non amichevole) tra la nazionale degli Umani e il Resto del mondo zoologico, in cui la demagogia del linguaggio funge da cassa di risonanza propagandistica per distinguere il centro dominante dalla periferia dominata (pensiamo al classico epiteto “animale” usato connotativamente come insulto invece di essere assunto denotativamente come piana constatazione dell’appartenenza degli umani al mondo animale). Concorrono al dualismo coatto: un uso spropositato dell’“istinto”, elevato a “soluzione definitiva a qualunque problema” (ergo ridotto a barzelletta) apposta per minimizzare le capacità di apprendimento con conseguente trasmissione culturale, nella convinzione annessa che nel mondo animale esista solo il gruppo e non l’individuo (a tal proposito Martinelli non si stanca mai di ricordare la geniale demistificazione del concetto da parte di Gregory Bateson); “l’opinione comune che l’essere umano sarebbe l’unico animale in grado di svolgere delle attività per il semplice gusto di svolgerle”; e il suo corrispettivo scientifico, quello scetticismo che da piattaforma razionale alla base della ricerca spesso slitta verso il dogmatismo umanista e la paura irrazionale dell’antropomorfismo, rimando con la suddetta resistenza ad accettare che prerogative finora timbrate “only human” (fornite per diritto divino insieme all’anima, con ogni probabilità) non lo sono.
Tutto ciò ha prodotto quella gerarchizzazione piramidale e ideologica che vede l’umano al vertice, le scimmie antropomorfe subito sotto, e così via a scendere verso il “bestiale”, con la tentazione sempre in agguato del paragone col modello umano considerato come optimum con cui paragonare tutto il resto (in realtà un’ossessione che dice molto sulla psicologia umana, questa del separare e distinguere a ogni costo, come per compensare con un esibito senso di superiorità un senso di inferiorità rimosso, chioso io). Ma l’estetica – concepita laicamente e non riduttivamente – è una “complicazione gratuita fornita dalla Natura”, e la musica, come le altri arti declinate animalisticamente, possono essere studiate a tutto tondo, dal punto di vista semiologico ed estetico, usando l’empatia e il riconoscimento come criterio di decodifica di tali fenomeni artistici “borderline”. Si scopre allora che le caratteristiche individuate dalla musicologia nelle manifestazioni musicali umane si ritrovano pari pari in quelle extraumane, e davvero è del tutto naturale che sia così, sarebbe stato ben bizzarro il contrario, piuttosto, essendo il senso estetico e ludico un vantaggio biologico. Per citare Roger Caillois, che ci pare caschi a fagiolo: “L’uomo è un animale come tutti gli altri, la sua struttura biologica è la stessa degli altri esseri viventi; lui pure è sottomesso a tutte le leggi dell’universo, come quelle dalla gravitazione, della chimica, della simmetria, e così via. Perché allora supporre aprioristicamente che sia necessariamente una mania, un’illusione o un miraggio la pretesa di ritrovare altrove le proprietà della sua natura o, inversamente, di ritrovare in lui le leggi che si constatano reggere le altre specie? Tutto invece fa ritenere più probabile la continuità. Mi pare comunque sia una forma di antropocentrismo, se non di antropomorfismo, quella che porta ad escludere l’uomo dall’universo e a sottrarlo alla legislazione comune. Antropocentrismo negativo, ma non meno pericoloso dell’altro che lo situa al centro del mondo e rapporta tutto a lui solo. Due effetti del medesimo orgoglio.”
A studiarla coi giusti strumenti, la musica dei non umani schiude architetture sonore di notevole complessità, e straordinarie varietà ritmiche. Quanto al canto, con ogni probabilità quello umano è nato per imitazione del corrispettivo ornitologico, e Messiaen è solo il più celebre tra i musicisti che hanno ricambiato il favore, alcuni dei quali si sono dedicati alla pratica musicale interspecifica, come Jim Nollman e la sua chitarra con le orche o David Rothenberg e il suo clarinetto con gli uccelli. La questione musicale, conclude Martinelli, è una questione animale, e gli animali hanno soul, eccome se ce l’hanno.
Con Lights, Camera, Bark! il percorso dell’autore sui sentieri della semiotica “etica” devia verso la settima arte, e le “anthrozoosemiotics of cinema” vengono proposte come sineddoche per il problema della raffigurazione filmica tout court, che del resto sin dalla sua preistoria (gli studi sul movimento equino di Muybridge) ha posto davanti all’obiettivo gli animali non umani (e aggiungo io che proprio parlando di uno zoofilm Bazin elaborò la cruciale teoria del montaggio proibito). Era davvero ora che, molti anni dopo i gender e i post-colonial, anche gli animal studies si applicassero seriamente al cinema, e nello studio martinelliano ritroviamo molte delle dinamiche già sopra riscontrate. L’approccio filmico comune agli animali non umani viene infatti definito come “hardcore etic”, con la solita varietà di specie raggruppate a rappresentare gli “altri”, o il singolo animale preso a metafora per/dell’umano. Gli esempi abbondano: pensiamo all’espressione umanizzata dei cavalli animati (e i buoni sono i più umanizzati), come se la connotazione etica ed etic li elevasse di stato, dalla bestialità verso l’umanità; di converso, parlando di ibridi antropozoomorfici, ci sono i Mr. Hyde progressivamente più bestiali a iconizzare la caduta involutiva di Jekyll dalla superiore condizione umana all’inferiore scimmiesca, spostando il focus del dualismo, rispetto a Stevenson, dal sociale al biologico. E poi c’è, prevedibilmente, lo spettro dell’antropomorfismo ad aleggiare: in particolare Martinelli si sofferma sulle pretestuose accuse in tal senso mosse ad Annaud per L’ours, qui semmai accostato al più sensato concetto di “antropomorfismo critico”, perché è troppo comodo rigirarci le somiglianze interspecifiche sempre a nostro vantaggio (esagerarle se servono in laboratorio per giustificare le sperimentazioni sugli animali, minimizzarle se si tratta di prenderci le nostre responsabilità etiche). In tal senso non si può che far proprio il cosiddetto “Canone di Martinelli”, che va a ribaltare quello di Morgan, principio metodologico creato in vitro proprio per evitare il temutissimo spauracchio antropomorfico: “in nessun caso si dovrebbero interpretare azioni e comportamenti come il risultato di una facoltà psichica inferiore, se è possibile interpretarla come il risultato di una facoltà psichica superiore”. (Un punto su cui siamo particolarmente sensibili, en passant, viste certe bislacche critiche su questo terreno che si sono arrivate a proposito del nostro primo romanzo.)
Martinelli, nonostante il suo interesse precipuo sia quello teorico, butta giù anche un abbozzo di storia del film animalier, dichiaratamente incentrato sul cinema occidentale e in particolare hollywoodiano. Nello specifico, avrei personalmente aggiunto una serie di titoli a me pare imprescindibili, da Au hasard Balthazar a Babe: Pig in the City, oltre ad approfondire la trattazione dell’horror a tema: penso a capolavori come i Cat People di Lewton/Tourneur e Schrader (e a tutta l’epopea dei mutaforma), alle varie versioni del Black Cat poeiano da Ulmer a Fulci, a Phenomena, a Monkey Shines, ecc. ecc. Per non parlare, a proposito di interazioni interspecifiche, delle folgoranti apparizioni animali nel cinema di Michael Mann: il contatto di Reba con la tigre anestetizzata in Manhunter, gli sguardi dalle risonanze derridiane tra il puma e Cora in Last of the Mohicans, tra il coyote e Vincent in Collateral.
Ma a parte questo le questioni in ballo sono molteplici: per lo stereotipo dell’us and them (coi suoi corollari colonialisti e razzisti) si segue l’evoluzione simpatetica del trattamento di re Kong da Schoedsack-Cooper a Jackson; si precisa la portata dell’effetto Bambi sulla percezione della caccia e si traccia la figura dell’animale sacrificabile a maggior gloria umana di The Yearling; si analizzano il Moby Dick secondo Huston e lo specismo di Planet of the Apes; per gli animali uccisi in campo, si discute della portata documentaria di scene come quella del bufalo di Apocalypse Now; ci sono escursioni nei territori dell’ecokill e dello zoosexual, tramite film simbolo come The Birds e La bête; e c’è anche un’interessante appendice sulla rappresentazione filmica non più degli animali non umani ma di alcuni dei loro avvocati più esposti socialmente, cioè i vegetariani, per lo più standardizzati nel segno della weirdness.
L’apertura di credito al futuro e il senso di responsabilità della paternità insufflano infine la Lettera a un futuro animalista, che è poi per l’esattezza una serie di missive tematiche stese nell’arco di tre anni ad accompagnare altrettanti step di crescita nella giovane vita di Elmis, il Martinelli Jr. Si parte dall’eroismo (inteso come altruismo) per arrivare all’antieroismo (ovvero, com’è notorio, non son tutte rose e fiori in ambito animalista). Nel corso del cammino si incontrano gioie e dolori di una quotidianità che conosciamo bene: le assurde richieste di coerenza assoluta da parte dei “bestial contrari”; le inesauribili fallacie retoriche delle loro argomentazioni; la pseudo-moderazione del conformismo vs il pseudo-estremismo di chi non si adegua al pensiero dominante; il già citato uso non innocente del linguaggio (e in questo il “parlare specista” mostra tutti i suoi agganci coi corrispettivi sessisti, omofobi, razzisti: in particolare trovo affascinante quel cortocircuito mentale-linguistico per cui spesso si definiscono “umani” comportamenti comuni a tante altre specie, e “bestiali” altri che sono di nostra pressoché esclusiva competenza, salvo scoperte che dimostrino il contrario).
Anche in questo caso troviamo variazioni su temi già incontrati negli altri libri, affrontati da angolazioni inedite: la percezione discriminatoria di un indistinto outgroup animale; la dialettica tra imparzialità scientifica e conoscenza passionale; l’ossessione identitaria e discriminatoria del pensiero umano, nella mia lettera preferita, dove viene battezzata la F.I.S.S.A., Federazione Internazionale per il Sostegno alla Superiorità Antropica. Vengono enucleati una serie di insegnamenti che il mondo animale può fornirci, dalla dignità al coraggio, dalla sobrietà alla maturità. Si ribadisce che anche i non umani sono “persone” (cosa che fa scattare alcuni come per chissà quale lesa maestà, quando lo si dice), e la loro riduzione verbale a “gruppi”, se non “cose”, è usata ad hoc per meglio regolarne lo sfruttamento.
E quello che mi preme sottolineare per concludere è che le argomentazioni poggiano sempre su una solida base laica, atea, scientifica, cosa che andrebbe segnalata a certi aedi del razionalismo scientista pro-test (vedi l’Associazione Luca Coscioni) e anti-veg (vedi la UAAR). A tal proposito non dimentica Martinelli il discorso sul presunto scollamento metodologico tra scienza ed etica, che poi vale per lo più quando ci sono di mezzo gli animali non umani, ed è in realtà una rimozione da parte di certi scienziati del retroterra culturale/sociale/etico che sta a monte di qualsiasi ricerca. L’atteggiamento corretto sarebbe invece quello di legittimare l’etica attraverso la scienza, e il proposito martinelliano è proprio, come abbiamo visto, quello di usare il discorso semiotico per superare l’antropocentrismo e approdare a un biocentrismo le cui conseguenze etiche sono evidenti. L’animalismo, la sua evoluzione antispecista (non entrerò nella polemica sull’uso dei due termini, che Martinelli sintetizzò genialmente come “antani”), in quest’ottica sono “tecnologie” win win, etiche, ecologiche, economiche, alla faccia degli pseudo-razionalisti di cui sopra, in realtà più simili ai fondamentalisti che a parole combattono (col feticcio scientifico al posto di quello religioso) di quanto saranno mai disposti ad ammettere. Allo stesso modo la conseguente scelta vegetarista è altrettanto razionale da tutti i punti di vista (etico, ecologico, salutista), e quella polifaga a conti fatti irrazionale, nostalgica, condizionata socialmente. Basterebbe prenderne atto, per cominciare a impostare il dialogo in forme più ragionevoli, ma si sa che la razionalità (insieme alla libertà), è forse la parola più manipolata di questi anni, e il ribilanciarne l’asse semantico non è il minore dei meriti nell’opera di Martinelli.
gli “animal studies”? Poveri noi..
Su questi temi io sto dalla parte dell’associazione Luca Coscioni e dell’Uaar tutta la vita, ma certo io sono una vittima del maligno e specista “pensiero dominante”
Detto questo, che ognuno scelga il regime alimentare che ritiene
tanto per la cronaca: non nego che gli esseri umani sono (anche) animali, e non amo certi estremismi del razionalismo “scientista.”.ma non è che l’estremismo opposto mi piaccia di più.
Gentile Paolo, neanch’io amo l’estremismo opposto, l’importante però mi pare chiarirsi sul concetto di “estremismo”. Se è usato come nel luogo comune “i vegan sono estremisti”, direi che non ci siamo. Non ho capito bene invece il concetto del “poveri noi” riferito agli animal studies. Non è forse un campo di studio importante? A meno, anche qui, che l’uscire dall’umano sia vietato (e peccato si dicessero le stesse cose dei gender studies 40 anni or sono: siamo condannati davvero a fare sempre gli stessi discorsi?). Il riferimento all’Associazione Luca Coscioni e alla Uaar mi sta molto a cuore, proprio perché mi pare che il loro “sacrosanto” appellarsi a una visione laica e non confessionale – su cui sono non d’accordo, di più – venga a volte squalificato da un concetto di razionalità molto discutibile, sleale e parziale, quando la prima si scaglia dalla sua posizione pro-test contro qualsiasi critica alla ricerca scientifica aggrappandosi appunto a una Razionalità che diviene una specie di divinità intoccabile, un dogma su cui non è permessa discussione, manco fosse la verginità di Maria (precipitando in un nonnulla dalla parte opposta della barricata, insomma), o la seconda faccia uscite bizzarre sulla “non razionalità” della scelta vegetariana, anche queste ammantate da un’aura pseudo-scientifica nonostante tutti gli studi che sono andati a dimostrare l’esatto contrario. La razionalità a corrente alternata, che funziona solo per gli animali umani, non è la mia razionalità, mi dispiace.
non voglio vietare nulla, per carità. Ma non è vietato neppure avere delle perplessità
Nulla è vietato.