“Ho trentotto e due” disse Gianni in un soffio, “e mi fa malissimo la testa”.
“Deve mettere la supposta” insistette Ilaria.
“Non me la metto”.
“Allora ti do uno schiaffo” lo minacciò la bambina.
“Non gli dai nessuno schiaffo” intervenni.
“E perché tu li dai, gli schiaffi?”.
Non davo schiaffi, non li avevo mai dati, al massimo avevo minacciato di darli. Ma forse per i bambini non c’è nessuna differenza tra ciò che si minaccia e ciò che realmente si fa. Io almeno – adesso me ne ricordavo – da piccola ero stata così, forse anche da grande. Ciò che mi sarebbe potuto accadere se avessi violato un divieto di mia madre, mi accadeva comunque a prescindere dalla violazione. Le parole realizzavano subito il futuro e mi bruciava ancora la ferita della punizione quando neanche mi ricordavo più della colpa che avrei potuto o voluto commettere. Mi tornò in mente una frase ricorrente di mia madre: “Ferma o ti taglio le mani” diceva quando toccavo le sue cose di sarta. E quelle sue parole per me erano forbici intere, lunghe e di metallo brunito, che le uscivano dalla bocca, fauci di lame che si chiudevano sui polsi lasciando moncherini ricuciti con l’ago e il filo delle spagnolette.