Ce lo dicono spesso, a noi ragazzi degli anni ’80, che quando attacchiamo con la nostalgia dei favolosi Eighties diventiamo molesti. E del resto la narrazione di quel decennio fatale e ferale è diventata nel frattempo un campo di battaglia ideologico senza esclusione di colpi. Perché gli ’80 diventano, nel racconto a posteriori che se ne fa, tutto e il contrario di tutto, la sentina di ogni male della contemporaneità piuttosto che l’ultima possibile età dell’oro, il precario apice di un mondo sull’orlo di un cambiamento radicale, e perciò passibile di idealizzazioni o deprecazioni assolutizzanti.
Quanto a me, cerco per quanto possibile di evitare le pericolose chine dell'”una volta si stava meglio”. Eppure questi giorni mi veniva da pensare ripetutamente – per molteplici confronti sul campo – all’anno orwelliano di cui cade il trentennale, e certo la tentazione è forte, e per una volta cederò alle sirene della golden age.
Perché nel 1984 c’erano Evert e Navrátilová che battagliavano per il mondo (e quell’anno Martina castigava sempre Chris), mentre McEnroe era l’uomo dei miracoli, quello che vinceva 82 incontri e ne perdeva 3 (compreso ahimè quello decisivo del Roland Garros contro Lendl). E intanto nella stessa Parigi Platini andava a vincere il “suo” Europeo, e illuminava ogni campo su cui metteva piede. I Celtics battevano i Lakers 4-3 nella finale dell’NBA, mentre al Superbowl i 49ers di Joe Montana sopravanzavano i Dolphins.
A Los Angeles Carl Lewis diventava il figlio del vento, e Greg Louganis spargeva bellezza a pieni tuffi. Ma erano anche le Olimpiadi degli Abbagnale e di Mauro Numa, Cova vinceva i 10.000 e Gabriella Dorio i 1500, mentre qualche mese dopo Pizzolato a New York iniziava un triennio di dominio tricolore nella maratona della Grande Mela, e a pensarci oggi, dal nadir dell’atletica italiana, viene un po’ da piangere. A Sarajevo, qualche mese prima, Paoletta Magoni era piombata dalla nebbia per prendersi lo speciale contro ogni previsione.
Nelle sale c’erano film come Cotton Club e Gremlins, Ghostbusters e Nightmare, Omicidio a luci rosse e Paris, Texas. C’erano Bianca, Non ci resta che piangere, C’era una volta in America, e solo anni dopo avremmo scoperto cosa diamine stavano combinando a Hong Kong e Taiwan.
Il 16 settembre sulla NBC andava in onda Brother’s Keeper, primo episodio di Miami Vice.
Qualche giorno prima era uscito il numero di “Panorama” che svelava la storia dietro (una de) le false teste di Modì ritrovate nel canale livornese.
Ma niente fa andare in tilt la macchina della nostalgia come l’hit parade, che all’epoca era una cosa seria, un vero sismografo del tempo presente, un rito radiofonico del week end che svelava come nessun’altra cosa dove tirava il vento. E scorrere le classifiche di quei mesi è come mettere le mani in un forziere di tesori.
I veri dominatori erano Trevor Horn e Paul Morley col trionfo del loro progetto di pop postmoderno della ZZT Records che comprendeva Frankie Goes to Hollywood, Propaganda, Art of Noise. E poi c’erano Billy Idol e Cindy Lauper, i Bronski Beat e i Matt Bianco, Alison Moyet e Howard Jones.
Jim Steinman onorava la soundtrack di Streets of Fire con due delle più grandi canzoni della storia del rock. Antonioni dirigeva il videoclip di Fotoromanza. Alice e Battiato andavano all’Eurofestival. Patty Pravo tornava a Sanremo. Giuni Russo era Mediterranea e Antonella Ruggiero Aristocratica. In Spagna uscivano ¿cómo pudiste hacerme esto a mí? e Aire. In Francia Toute première fois e Un autre monde.
Se poi andiamo a elencare gli album dell’anno, c’è da aver paura: in ordine sparso incontriamo Some Great Reward, Zen Arcade, Fugazi, Treasure, Reckoning, Lament, c’era un sacco di pioggia (Purple Rain, Sparkle in the Rain, Ocean Rain), e c’era il new cool di Eden, Café Bleu, Diamond Life, c’erano A Pagan Place, Brilliant Trees, Building the Perfect Beast, The Unforgettable Fire, It’s My Life, Crêuza de mä, Paolo Conte (terzo della serie), i primi degli Smiths, dei Dead Can Dance, delle Bangles, l’unico dei Dali’s Car, ecc. ecc.