Non avevo mai sentito di un indiano che suonasse il piano sino a che Victor acquistò un piano a mezzacoda al mercato delle pulci e lo portò nella riserva con un camioncino del BIA. Per tutta l’estate lo strumento si impregnò di pioggia sino a gonfiarsi come un bel tumore. Gli chiesi ripetutamente: «Victor, quando ti decidi a suonare quel coso?» Lui sorrideva, borbottava una qualche inintelligibile preghiera, poi mi sussurrava nell’orecchio: «C’è un giorno per morire e un giorno per suonare il piano». Proprio prima della festa Victor spinse il piano per metà della riserva, lo appoggiò a un pino, fletté i muscoli, fece scrocchiare le nocche e martellò un pezzo di Béla Bartók. Nel lungo silenzio che seguì l’esibizione, con le splendide dissonanze e il sotteso messaggio di sopravvivenza, gli indiani Spokane piansero, colpiti da quella musica strana e tuttavia familiare.