Ex Libris 148 (feticci)

Apocalittici

L’opera d’arte ci si propone come un messaggio la cui decodificazione implica un’avventura, proprio perché ci colpisce attraverso un modo di organizzare i segni che il codice consueto non prevedeva. Da questo punto in avanti, nell’impegno di scoprire il nuovo codice (tipico, per la prima volta, di quell’opera – e tuttavia legato al codice consueto, che in parte viola e in parte arricchisce), il ricettore si introduce per così dire nel messaggio facendo convergere su di esso tutta la serie di ipotesi consentite dalla sua particolare disposizione psicologica ed intellettuale; in difetto di un codice esterno a cui rifarsi completamente, elegge a codice ipotetico il sistema di assunzioni su cui si basa la sua sensibilità e la sua intelligenza. La comprensione dell’opera nasce da questa interazione.
Ma una volta compresa, immessa in un circuito di ricezioni ciascuna delle quali si arricchisce dei risultati delle decodificazioni precedenti (di qui la funzione della critica), l’opera rischia di urtare contro una sorta di abitudine che il ricettore ha lentamente elaborato nei suoi confronti. Quel particolare modo di offendere il codice (quel particolare modo di formare) diviene una nuova possibilità del codice; almeno nella misura in cui ogni opera d’arte modifica le abitudini linguistiche di una comunità, rendendo accettabili espressioni che prima venivano ritenute aberranti. Il messaggio poetico, quindi, trova ormai il ricettore così preparato (sia perché egli lo ha esperito già molte volte, sia perché nell’ambito culturale in cui vive mille divulgazioni e commenti glielo hanno reso familiare) che l’ambiguità del messaggio non lo sorprende più. Il messaggio viene orecchiato come qualcosa che riposi sopra un codice acquisito. Di solito lo si interpreta di colpo applicandogli, a mo’ di codice, la più accreditata e diffusa delle decodificazioni attuatane (l’interpretazione corrente, o – più spesso – una formula che riassume l’interpretazione corrente). Il messaggio perde così, agli occhi del ricettore, la sua carica di informazione. Gli stilemi di quell’opera si sono consumati.
Allora si capisce come questo fatto non solo spieghi quello che comunemente, in termini di sociologia del gusto, è inteso come “consumo delle forme”; ma anche chiarisca come una forma possa diventare “feticcio” e venire fruita non per ciò che è o può essere, ma per ciò che rappresenta sul piano del prestigio o della pubblicità. Amare la Gioconda perché rappresenta il Mistero, o l’Ambiguità, o la Grazia Ineffabile, o l’Eterno Femminino (ma poi l’utilizzazione del feticcio può essere snobisticamente più sfumata: “Ma era proprio una donna?”, “Bastava un colpo di pennello in più e il sorriso non era più quello”, e così via) significa accettare un messaggio determinato avendogli sovrapposto, come codice, una decodificazione precedente irrigidita in formula. In effetti non si guarda più alla Gioconda come a un messaggio da mettere in rilievo per la sua struttura: la si usa come segno, come significante convenzionale il cui significato è una formula diffusa dalla pubblicità.


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