Ormai non scrivo praticamente più di cinema, ma mi fa sempre piacere buttar giù due righe, specialmente se vanno a finire dentro un libro importante. E importante lo è davvero Il nuovo cinema di Hong Kong, perché arriva benemerito ad aggiornare un discorso che in Italia aveva visto, a cavallo del famigerato handover, i contributi pionieristici di Nazzaro/Tagliacozzo e Pezzotta, su cui un po’ tutti ci siamo formati. Locati/Sacchi gettano uno sguardo stratificato alla situazione hongkonghese post-1997, permettendo di capire a cultori e neofiti come è mutato (produttivamente, creativamente, ideologicamente) il modo di comporre suoni e immagini nell’ex colonia inglese dopo quella data che aveva ossessionato gli autori della prima e seconda new wave, in un mondo nuovo che deve più che mai fare i conti col mercato cinese e panasiatico, con la concorrenza della Corea del Sud, con un panorama strutturale profondamente mutato. Si precisa che – più del fin troppo citato 1997 – l’anno decisivo è stato il 2003, quello della Sars e degli accordi Cepa, che hanno costretto i cineasti a ripensare i proprio rapporto con la Mainland per salvare col compromesso la persistenza di Hong Kong nelle mappe mondiali. Questo è l’humus in cui prendono forma le vette commerciali delle serie Infernal Affairs e Ip Man, la rinascita del wukia e la decadenza della commedia, la progettualità della Milkyway Image e di Peter Chan, la resistenza cantonese di Herman Yau e Ann Hui, le sperimentazioni di Fruit Chan, i nuovi talenti di Soi Cheang e Pang Ho-cheung.
Il volume vanta una prestigiosa introduzione in cui Olivier Assayas (tra i primi responsabili della scoperta occidentale delle new wave hongkonghesi e taiwanesi), a trent’anni dal famoso speciale dei “Cahiers” individua ancora nella spinta propulsiva di Tsui Hark, dai trucchi artigianali di Zu all’inventiva Cgi di Detective Dee, la chiave di volta di un’immaginario visivo che cerca di resistere all’omologazione. Quindi i coautori si applicano a una limpida disanima in cui i dati sociopolitici (“un paese due sistemi”) si specchiano nella mutazione dei generi, degli autori e dei corpi che ci hanno fatto amare Hong Kong (interessante soprattutto l’emergere dalla marginalità cui erano finora confinati un cinema indipendente mai così vitale e una sensibilità queer ben sviluppata). Non manca un dizionario dei titoli più significativi del periodo, un florilegio di interviste ai protagonisti, e un amarcord pre-handover sui colpi di fulmine di studiosi e appassionati che rievocano il primo approccio ai film che scatenarono la passione divorante. Lì, se volete, trovate anche il mio intervento su Painted Skin, l’ultimo film del maestro dei maestri, King Hu, il suo “gesto quasi postumo” che mi rapì in una lontana visione veneziana.
Ps. Solo non capisco perché ce l’abbiano tutti con Missing, che è un film di straordinario fascino.
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