La trama è semplice. In un futuro prossimo (domani, nel 2015, fra dieci anni o mai, chissà) un gruppo di programmatori idea e crea un’intelligenza artificiale, anzi: una popolazione di intelligenze artificiali. Uomo solo appena divorziato con problemi di socializzazione ne acquista una e se ne innamora.
Il motivo del titolo è semplice: mentre guardavo il film mi sembrava di star sfogliando una lunga, enorme e infinita rivista patinata, di queste femminili fighette, con quei colori pastello e le linee nettissime. La fotografia del film è qualcosa di spettacolare, in effetti. Anche le ambientazioni, questa post-città pulitissima e asettica, crasi tra Los Angeles e Shanghai. La cosa che stonava, nel film, erano proprio gli abiti. Un set di alta moda fighissimo rovinato dalla collezione. E dalla facciona di Gioacchino Fenice, ma questo è un altro discorso su cui tornerò più sotto.
Iniziamo dalla base. Iniziamo da “Lei”. Samantha.
Gioacchino si sente solo e compra una OS, un’intelligenza artificiale. Prima di lanciare e dar vita (letteralmente, non dimentichiamocelo) al programma, deve decidere il sesso e rispondere a un piccolo test banalmente freudiano. Et voilà, les jeux sont fait. Nasce Samantha, la cui personalità, stabilita dallo stesso test freudiano cui ha risposto Gioacchino, è ben definita al punto che riesce a scegliere da sé quale nome le suona meglio.
Questo è un piccolissimo segmento di film, ma già mi suscita diverse domande. Ne dico almeno un paio? Ok.
Prima domanda: dare un sesso alla… chiamiamola creatura? Ma perché? Non è umana, non dovrebbe sottostare alle leggi che regolano il nostro dna, non è nemmeno un androide, non avrebbe bisogno di avere un sesso. Per dare alle persone che la useranno una parvenza di… di cosa, rispettabilità? Potrei capire se un omofobo sessista di oggi fosse infastidito da una creatura ermafrodita, ma in quel patinatissimo futuro?

Seconda domanda: tu crei un’intelligenza artificiale che riesce a capire quale nome preferisce, per smistare la posta e titillare il pisello annoiato di Gioacchino? Come se io progettassi e costruissi l’enterprise per Ale che si è stufato di farsi tutti i giorni Labico-Roma in treno.

Non dovete pensare però che il film sia brutto. Come dicevo, esteticamente è perfetto. Come critica sulla società e sull’incapacità di comunicare, anche. Il messaggio di fondo è banalotto, ma giova sempre ricordarlo. Samantha in fondo non è altro che una proiezione dei desideri inconsci di Gioacchino (il test freudiano). La comunicazione è uno scambio di informazioni tra due o più creature. Qui ci sono due creature, che in realtà sono una. È vero, sono due, ma le si percepisce come una. La comunicazione quindi ha un unico senso: verso l’interno. Gioacchino non fa altro che condurre una lunga discussione con sé stesso, su quanto si vuole bene e su quanto abbia bisogno di sé stesso. Su questo piano il film regge benissimo. Ci sta anche (SEMI SPOILER) il finale vagamente ottimista in cui forse, magari, chissà, il senso della comunicazione si inverte. Appunto: chissà se?
Momenti top del film, ne ho un paio.
Il primo, quando Gioacchino a un certo punto crede di aver perso Samantha, e si mette a correre come un cretino verso casa. A un certo punto inciampa e si arrotola su quattro metri di cemento del marciapiede. In un film solipsistico come questo, ci sono però diverse persone che vedendolo cadere in modo così rovinoso, si preoccupano, si fermano, tendono le mani per aiutarlo. Lui scarta infastidito, e riprende la corsa.
Il secondo, a casa di un amico per la festa della figlia piccola. Quando Gioacchino le spiega che la sua fidanzata in realtà è un giochino sul post-smartphone, la bimba fa una faccia eloquentissima. Magari non era nelle intenzioni di Spike Jonze. Magari Spike non avrebbe voluto che la faccia della bimba comunicasse una frase tipo “vabbeh, chiamate la neuro!” Ma succede. E per questo è un bellissimo momento.
Ultimo appunto, su un film pluricandidato all’oscar (per quel che vale l’oscar) che resta un bellissimo superspot (avesse pubblicizzato un set di bicchieri, li avrei comprati subito). Le scene di sesso. Sappiamo tutti che le scene di sesso sono difficili da girare. Se girate in un film che fa del dialogo le fondamenta di costruzione, la cosa diventa ancora più difficile. Spike, le tue scene di sesso fanno ridere. Evita, che non sei capace.
Ps: appello per il mio carissimo. Ale, tesoro, so che mi leggi. Ti prego, ti prego, ti prego: basta portarmi a vedere film con Gioacchino Fenice. Lo detesto, non posso vederlo, mi urta. Guardare un film in cui dal primo all’ultimo fotogramma c’è il suo faccione irritante, non fa bene né ai miei nervi, né al nostro matrimonio.
Sì, che Jonze sia chicchettosissimo (come la sua ex Sofia Coppola) non ci piove. Però qui in particolare la glammeria è del tutto integrale alla resa atmosferica di questa società anestetizzata, dove la materia persiste in brevi dettagli quando la percezione è più arresa. Come se il pastello digitale asetticizzasse gli schemi della commedia sentimentale, portando piuttosto verso una distopia antonioniana della comunicazione. E proprio Antonioni (depurato del portato di disperazione) è il nume tutelare dell’inquadratura finale. Non so, ai tempi di Essere John Malkovich pensavo che Jonze fosse un bluff, ma qui (pur con tutta la carineria che lo pervade) trova un correlativo concettuale perfetto per la sua forma iperstilizzata. E l’Alan Watts “aumentato”, con la voce piaciona di Brian Cox è meraviglioso.
E tra l’altro alla fine è la risposta 10 anni dopo di Spike a “Lost in Translation”.