A volte bisogna aspettare che qualcuno ci lasci per misurare (nel vuoto risonante che rimane) il suo esatto peso nella propria formazione culturale, nella propria educazione sentimentale al bello. Ci riflettevo questi giorni, da quando se n’è andato Francesco Di Giacomo – riascoltandolo nelle obbligatorie commemorazioni, ripensando alle tappe della mia storia insieme a lui.
Il primo contatto con la sua voce inconfondibile risale all’alba degli anni ’80, quando gli alfieri del progressive cercavano, con risultati alterni anzichenò, di semplificare il loro linguaggio per adeguarsi al mutato sentimento del suono. Tra gli italiani, il Banco del Mutuo Soccorso fu quello che meglio riuscì nell’impresa, e il bambino che ero probabilmente li intercettò ai tempi di Paolo, Pa, che all’epoca andava un sacco in radio, con quel coretto pop irresistibile e quello strano testo, una filastrocca di ambigua innocenza che avrei capito bene solo molto più tardi. In seguito sarebbero venute Lontano da e soprattutto Moby Dick: per me che identificavo la mitologia melvilliana col film di Huston, quell’azzardato assumere il punto di vista della balena, la bianca dama corteggiata dai suoi letali amanti, senza dimenticare l’aggiunta di splendida gratuità dei “cavalieri del Santo Graal”, pareva un’innovazione geniale (e ancora penso che la vera impresa sarebbe riscrivere Moby Dick dalla parte di lei).
Verso la fine del decennio, addentrandomi nella storia del rock, avrei infine ricostruito le tappe cronologiche dell’epopea prog, di quello italico dentro il movimento: e ovviamente i primi tre album del Banco sono altrettante pietre miliari su quel cammino, con le visioni magiche e medievaleggianti di stampo genesisiano che coabitano con le suite engagée, le ballate sublimi, gli strumentali attingenti alla tradizione musicale nostrana. Ma anche gli album successivi nascondono perle di non scontato virtuosismo o di toccante intimità.
Negli anni ’90 poi, col revival prog, Di Giacomo, Nocenzi e Maltese sarebbero tornati a riaffermare il proprio ruolo di gruppo romano per eccellenza, con nuove uscite e tanti concerti, che seguimmo con passione e riconoscenza. E in quel periodo seguivamo anche con attenzione i viaggi etnici degli Indaco (che del Banco erano una splendida costola etnica), con cui Francesco collaborava abitualmente, e tante volte li vedemmo live insieme.
La musica del Banco mi accompagna ancora, e oggi – mentre la primavera si avvicina inesorabile – mi viene da ripensare a una certa notte di smarrimento e dolore da cui uscii mettendo sul piatto Io sono nato libero.
In questi giorni è certo autunno giù da noi
Dolce Marta, Marta mia
Ricordo il fieno e i tuoi cavalli di Normandia
Eravamo liberi, liberi
Ciao Francesco.