Ci stanno due ragazze, si chiamano Tina.
Una snocciola espressioni da vecchia saggia, anche se si incazza di brutto quando perde.
L’altra è figlia d’arte, sembra una bambolina ma ha un carattere di ferro.
Una è stata sempre un talento sregolato e discontinuo; poi, l’anno scorso, bum: ha vinto 11 gare, ha dominato la coppa del mondo dal primo all’ultimo giorno, ha stabilito il record assoluto di punti.
L’altra è stata sempre un talento purissimo falcidiato dagli infortuni, fino a sbocciare due anni fa, salvo l’anno scorso entrare in una crisi tecnica riscattata dalla prima vittoria, a fine stagione.
Una quest’anno non trovava più risposte: una volta non c’era di fisico, l’altra di testa, un giorno sembrava ritrovata, quello dopo risprofondava; ha cambiato allenatori, ha pianto, ha urlato, ha scavato dentro di sé fino a scoprire che poteva ancora vincere, una mattina cortinese.
L’altra le trovava tutte, le risposte: erano vittorie, e podi, e piazzamenti, era una continuità formidabile sostenuta da una classe cristallina rilanciata ogni volta su qualsiasi pista, fino a ritrovarsi là dove era destinata da sempre, a lottare per la coppa di cristallo.
Una è arrivata a Sochi senza certezze ma con un obiettivo: prendersi quello che le mancava, solo, tra tutti i traguardi, un oro per sé e la Slovenia.
L’altra è arrivata a Sochi con la piena consapevolezza della propria forza, e per dimostrare definitivamente che non è più la “figlia di”, bensì una campionessa a tutto tondo.
Entrambe hanno portato la bandiera della propria nazione, alla cerimonia d’inaugurazione.
Una s’è superata, e di ori ne ha portati a casa due: la discesa, ex equo con un’altra ragazza svizzera intelligente e stupita di quel che aveva fatto; e il gigante, la sua gara da sempre.
L’altra è caduta alla terza prova, della discesa, e si è ritrovata a camminare per il villaggio olimpico su due stampelle, a guardare le sue gare in tv.
Sabato si riaprirà il cancelletto: la giostra continua a girare, per le ragazze chiamate Tina.