
L’infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all’imperfetto: la mia almeno era stata così. Ma sentivo il vociare dei bambini sulla strada e mi pareva non fossero diversi da com’ero stata: strillavano nello stesso dialetto; ciascuno di loro si sentiva qualcos’altro: erano invenzioni, mentre vivevano la sera lungo il marciapiede squallido sotto l’occhio dell’uomo in canottiera. Correvano sui tricicli e si scambiavano insulti intervallandoli con grida lancinanti d’allegria. Insulti a sfondo sessuale: al loro gergo osceno si inseriva a tratti, con oscenità ancora più sanguigne, la voce dell’uomo con la sbarra.
Emisi un gemito. Mi sentii ripetere ad Antonio parole non diverse da quelle che stavo ascoltando, dietro quella porticina, nello spazio nero dell’interrato; e lui le ripeteva a me. Ma io mentivo, mentre le dicevo. Fingevo di non essere io.
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