Tempo fa volevo scrivere, qui sul blog, una sorta di lettera a un mio vecchio professore, quello di disegno e storia dell’arte. Era un personaggio, all’epoca, e uno degli insegnanti migliori dell’istituto che per comodità chiamerò Scuola Intitolata A Un Filosofo Di Cui Non Ho Ahimè Letto Nulla Perché Mi Faceva Antipatia. Il professore invece, per preservarne la privacy, ché ancora insegna, lo chiamerò Professore.
Dicevo che il Professore era uno dei pochi validi della scuola: all’apparenza totalmente pazzo, ma capace di far studiare la sua materia a tutti. Anche perché, se non la studiavi, erano dolori. Era (è) non uno storico, ma un architetto. Era (è ancora, spero), anche capace di vedere oltre le facce anonime dei suoi studenti. L’ho avuto, purtroppo, solo per il biennio, poi la disgraziata dirigente dell’epoca pensò bene di cambiare sezione a tutta una classe (la mia) e da quel giorno, riguardo la storia dell’arte, si successero una serie di tipi che di volta in volta entravano, fingevano di provare a insegnarci qualcosa, si annoiavano più di noi, mollavano la preda e si facevano i casi loro, uscendo poi puntualissimi al suono della campanella. Mi pare ovvio che in questo modo, io storia dell’arte abbia smesso di studiarla. Quando mi sono diplomata sono andata a cercare il Professore, per parlare un po’ con lui, e chiedergli cosa ne pensasse dell’idea di provare a iscrivermi ad architettura. Lui scosse la testa: “Lascia stare, non è la tua strada”. Aveva ragione.
Lasciai perdere architettura, e quando anni più tardi mi capitò di avere sott’occhio la lista degli esami da fare (il dipartimento del DAMS stava nella sede di architettura, all’epoca) gli ho metaforicamente acceso un cero in ringraziamento. Ho sempre pensato che lui e quella di letteratura italiana del triennio siano stati gli unici due professori buoni che ho avuto (e ho sempre pensato che se mai Ale e io pubblicheremo un libro, vorrei che loro due lo sapessero).
Così ogni volta che esce fuori la storia di quanta arte (non) si insegna a scuola dalla Gelmini in poi, penso, ecco, adesso scrivo quel famoso post in forma di lettera al Professore. Ma poi non l’ho fatto. Ho fatto invece uno di quei test che tutti condividono su facebook, e il risultato è stato un non esaltante 14 su 20. Avrei dovuto sapere (quasi) tutte le risposte, per indignarmi del fatto che negli istituti tecnici non si studierà più storia dell’arte, perché nemmeno io l’ho studiata più. Ho ricominciato dopo, durante l’università, dopo la laurea, per conto mio. Ma a scuola era più facile adagiarsi nell’incapacità dei vari prof che si sono succeduti (e non ho fatto sempre così, del resto)?
Quando vedo la gente indignarsi per la semi-abolizione della materia, mi viene da grattarmi e di brutto. Perché bisognerebbe indignarsi a monte. Beninteso, non sto facendo un discorso benaltrista (vade retro): non dico “sono ben altri i problemi della scuola”, bensì “sono a monte”. È un discorso più generale, complesso e sistemico. Bisognerebbe indignarsi per come vengono trattati i buoni insegnanti e per come i cattivi insegnanti non li schioda nessuno, dalle loro cattedre (e ne ho avuto fior di esperienze dirette). Per come in generale la figura stessa del professore sia passata da un’autorità semidittatoriale a uno speculare discredito, senza passare dal giusto riconoscimento della crucialità del ruolo. Per come i genitori, di conseguenza, son passati dall’ossequio cieco al potere dell’educatore all’altrettanto cieca difesa dei propri intoccabili pargoli, contro qualsiasi evidenza contraria. Per il continuo taglio dei fondi, per il fatto che i ragazzini devono portarsi la carta igienica da casa, tanto per fare l’esempio classico. Bisogna indignarsi, soprattutto, per come la politica degli ultimi venti anni ha trasformato la mente della gente, depotenziando di concerto la funzione formativa di un pensiero critico che dovrebbe essere il principale atout del sistema scolastico.
Eh, oggi sono retorica, ma va così. Del resto le lettere, che siano aperte o segrete, sono in qualche modo esercizi di retorica.