Nel genio precoce – quale appunto era Majorana – la vita ha come una invalicabile misura: di tempo, di opera. Una misura come assegnata, come imprescrittibile. Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte. E poiché è un “tutt’uno” con la natura, un “tutt’uno” con la vita, e natura e vita un “tutt’uno” con la mente, questo il genio precoce lo sa senza saperlo. Il fare è per lui intriso di questa premonizione, di questa paura. Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, in inganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Tenta di sottrarsi all’opera, all’opera che conclusa conclude. Che conclude la vita.
Mi ha sempre affascinato questa lettura di Sciascia del caso Majorana. E’ stato un coup de coeur rileggerla qui, con la voglia immediata di rileggere…
Sì, poi il tema dello svanire questo periodo mi/ci interessa molto, anche per cose scrittorie. Sentivo ultimamente delle nuove su Majorana, che a quanto pare (da documenti emersi di recente) sarebbe in realtà vissuto poco dopo la scomparsa. Ma certezze non ve ne sono, ancora, mi sembra.