Siccome sono bravo, ho anch’io celebrato il ventennale dalla morte di Fellini che cadeva giustappunto ieri concedendomi alla tele un film che mi mancava del riminese. Avevo un vago sospetto sul come sarebbe andata, ma siccome cerco sempre di mantenermi aperto alla sorpresa, mi son disposto alla visione con animo pacificato.
Niente da fare, Fellini è Fellini: eccolo lì, il periodare goffo, la pesantezza del tocco, il moralismo da vecchio zio (che ricorda quello dell’anima affine Chaplin in Un re a New York), l’accumulo sfrenato dei fenomeni da baraccone (“È uno schifo… Un circo equestre…”, dice Ginger/Masina del sottobosco televisivo, il guaio è che il marito vi aderisce alla perfezione), la tenerezza che vira costantemente al patetismo (ancora Chaplin), i refrain da avanspettacolo irrancidito, insomma tutto il corteo del phoney fellinism in gran spolvero. Certo, poi arrivano anche quei momenti di incanto spettrale, quasi ultraterreno, che lasciano ammirati e interdetti, prima che il carrozzone riprenda inesorabile il cammino.
Questo è Fellini, nel bene nel male: un uomo benedetto da un talento visionario fuori dal comune, talento purtroppo nutrito dai residui mal digeriti di un’educazione cattolica e inzuppato nell’indigesta salsa del grottesco. E quasi sempre il piatto della bilancia pende dalla parte sbagliata. Per gustare le osservazioni pungenti e l’irresistibile Sordi de Lo sceicco bianco tocca sorbirsi uno stile traballante con raccordi che spesso gridano vendetta al cielo. La dolorosa secchezza del Bidone è stretta tra le indigeste derive spiritualiste di La strada e Le notti di Cabiria. Il fulgore caleidoscopico de La dolce vita è depotenziato dal savonarolismo sottotraccia. Certi frammenti magnifici di Roma o Intervista sono dispersi in mezzo al fuoco di fila di fellinate, e così via.
Ma siccome son bravo e buono, voglio ricordare Fellini col suo (unico?) capolavoro, Toby Dammit, dove tutte le sue ossessioni trovano un miracoloso, concentrato equilibrio, nel segno di un “macabro consunto inutile disperato cerimoniale esistenziale” (Lino Micciché). Certo, la bambina fantasma è presa para para da Operazione paura di Bava, ma almeno, se devi rubare, ruba dai geni, quelli veri.