In un certo senso si potrebbe sostenere che la visione antispecista porti a compimento la rivoluzione darwiniana, prendendo sul serio e portando alle estreme conseguenze l’eliminazione delle specie come essenze immutabili e come fondamento della gerarchia naturale, mettendo così fine alla strategia di autodefinizione dell’uomo attraverso la differenziazione e l’opposizione rispetto agli altri animali e mostrando come lo sfruttamento della natura (umani inclusi) sia reso possibile da una visione antropocentrica che ha plasmato i processi di conoscenza e di controllo e che tuttora costituisce lo sfondo del modo dominante di considerare il mondo.
Il primo passo per la nuova visione antispecista è dunque un de-centramento dell’uomo e un rovesciamento dello sguardo che permette di ricollocare l’osservatore nella rete dei processi osservati.
Il secondo è l’inclusione dell’empatia nella conoscenza, dal momento che insieme agli altri viventi siamo solo una parte della “carne del mondo”. Il che significa anche il passaggio da un vedere “oggettivante”, che tratta gli altri come meri oggetti, a un sentire in prima persona, che ci consente di vedere e percepire l’altro nelle sue molteplici manifestazioni, in ciascuna delle quali ha luogo un diverso rapporto tra corpo, emozioni, conoscenza e volontà.
E infine significa l’abbandono del “punto di vista di Dio”, l’assunzione della finitudine e della vulnerabilità, della nostra condizione di mortali nella comunità del vivente (con tutto quel che ne segue, la contingenza, l’errore…), l’uscita da uno stato di minorità senza dover trasformare l’altro in minore.