Parlando da vecchione analogico, quel che l’affermazione delle playlist e della musica liquida fanno perdere (a parte, per lo più, la qualità sonora), è il concetto di sequenza di canzoni organica alla “forma album”, che fa entrare in sinergia e moltiplica le energie di ogni singolo brano per forza di rime interne e agganci reciprochi.
Ragionando in termini di facciate di LP, penso alla seconda di Synchronicity, apice del melodismo sincretico di Sting: Every Breath You Take/King of Pain/Wrapped Around Your Finger/Tea in the Sahara; sempre alla seconda di Year of the Cat, crescendo micidiale con Al Stewart in stato di grazia: Flying Sorcery/Broadway Hotel/One Stage Before/Year of the Cat; o alla prima della vinyl version di Metals, pura magia feistiana: The Bad in Each Other/Graveyard/Caught a Long Wind/How Come You Never Go There/A Commotion/The Circle Married the Line).
Penso al trittico di apertura (Homebreakers/All Gone Away/Come to Milton Keynes) di Our Favorite Shop, uno degli attacchi più devastanti sferrati all’Inghilterra thatcheriana, senza derogare alla raffinata esplorazione delle forme pop da parte degli Style Council; o a quello (Ho sempre me/L’aridità dell’aria/Stelle buone) di Tregua, affermazione smagliante della voce cantautorale instant classic di Cristina Donà.
Ma a mio parere la sequenza di canzoni più incredibile della storia è quella sfoderata da Ryan Adams all’inizio di Gold. Le tracce dalla 1 alla 7 rimangono un miracolo che si rinnova a ogni ascolto: l’istantanea classicità di New York New York, l’armonica fragrante e gioiosa di Fireckracker, l’iniezione di “americana” di Answering Bell, la sublime malinconia di La Cienega Just Smiled, l’accensione gospel di The Rescue Blues, la memorabile melodia di Somehow, Someday e la sovrumana dolcezza di When the Stars Go Blue sono un irripetibile condensato del genio adamsiano che lascia attoniti ed estasiati.
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