Quando arrivai nello studio, il gruppo sembrava sul punto di esplodere. Bill stava suonando su una montagna di bicchieri di carta, pestava su un prezioso clavicembalo fatto a mano e intanto annunciava a voce alta la ferma intenzione di far saltare in aria lo studio. Per non essere da meno, Rick Wakeman si aggirava per la sala silenzioso, mormorando tra sé e sé fingendo di essere muto, e mescolando zuppa e cioccolato in una stessa tazza per offrirla poi a qualche ospite sfortunato.
Lo studio – oscuro e un po’ misterioso – aveva un grande banco da mixaggio al centro della sala, una cosa che oggi potrebbe sembrare assolutamente normale. Gli strumenti erano collocati in varie stanze separate ed era chiaro, quindi, che il gruppo non suonava mai insieme. Ognuno contribuiva, con la sua parte, a un enorme puzzle sonoro che, fra l’altro, solo Jon e Steve erano in grado di visualizzare come un quadro completo. Gli Yes erano chiusi in quella prigione da giorni e giorni. Ero appena arrivato per ascoltare qualche anticipazione delle sezioni già completate che, con un tonfo soffocato, Eddie cadde a terra. Era crollato, addormentato, sulla console, lasciando girare i nastri sui magnetofoni a volume insopportabile.
Nelle oscure profondità dello studio si aggirava Bill Bruford, suonando un flauto nordafricano stonato, fatto di legno. Era talmente fastidioso che anche una persona normalmente ben educata come Steve Howe suggerì che, se proprio doveva sopportare quel casinaro all’interno del gruppo, avrebbe preferito suicidarsi. Poi Bill annunciò ad alta voce tutta la sua noia e stava ancora pestando i piedi in terra quando Eddie si svegliò, quel tanto che bastava per mandare in play una traccia dell’album, intitolata Total Mass Retain.
“Che cavolo vuol dire Total Mass Retain”, protestò Bill?
“Cosa c’è che non va con Total Mass Retain?”, chiese Jon, “dovevo farmi venire in mente un’idea, rapidamente”. Il nome del pezzo era stato scelto subito dopo l’ennesima discussione e, in quel momento, avevo anche capito male: pensavo che fosse Total Mass Return. “Perché non la intitoliamo Poke?”, chiese Bill.
Jon e Chris attaccarono a cantare le loro parti ai microfoni, ma sembravano come strangolati e stonati, mentre la base musicale sfumava all’improvviso. “Turn around, glider!”, ruggivano. Fuori dal contesto aveva poco senso, ma Jon insisteva: ” proviamo ancora!”, gridava. Aveva la voce rotta e fativaca a mantenere l’intonazione.
“Questo è lo stadio più insulso”, diceva Bill camminando avanti e indietro nella sua T-shirt candida. Si capiva chiaramente che avrebbe preferito stare seduto alla batteria con un paio di bacchette nuove in mano.
“Guardate, è proprio un lavoraccio”, diceva Jon, rosso in faccia, “mi sta venendo il mal di testa”.
“Chi ha scritto questo testo?”, chiesi?
Chris Squire indicò il cantante con il braccio. “Jan Onderson [sic] è il poeta. Il vecchio, grande Jan”.
“Il nostro quinto album”, diceva Jon meditabondo, mostrando una calma ammirevole, a dispetto dei mugugni della truppa, “mica ne abbiamo fatti solo un paio”.
Il suono di Close to the Edge che rimbombava dagli altoparlanti richiamò tutto il gruppo, di corsa, in regia. Steve, Rick, Jon e Bill cominciarono a giocare con i fader del volume sulla console, soffocando il tecnico con un intricato ammasso di braccia e dita.
Mentre gli echi delle ultime note si disperdevano in lontananza, Bill Bruford smise di stuzzicare oziosamente Eddie Offord con i bicchieri di plastica e disse: “beh, ce ne vuole di strada ancora per arrivare a fare West Side Story”.