Che sarebbe (il problema) la crisi dell’editoria. Anzi, la crisi della lettura. No, sbaglio, la crisi è un po’ più allargata, e riguarda *tutta* la cultura. Perché in Italia non si legge, ma in Italia non si va a teatro, né all’opera, non si entra nei musei, non si usufruisce delle biblioteche, le mostre e i cinema sono deserti e la gente diserta le fiere e le rassegne. In Italia chi organizza eventi culturali fa letteralmente la fame, il patrimonio natural/gastronom/artistic/letterario versa in condizioni pessime. Un malato terminale.
No, facciamo che il mio preambolo non lo prendete sul serio. Facciamo che chi si occupa di cultura *non* si mette a fare il pianto greco ogni volta che si parla di *** (e al posto degli asterischi mettete quel che volete, dal teatro di Ionesco alla fiera della babbuccia del montanaro). Facciamo che fuori dai musei, quando ci sono eventi come la notte dei musei o le giornate del FAI, c’è la fila. Che la gente se ha una domenica libera porta i ragazzini per paesi, o nelle oasi WWF, o al Salone del libro di Torino.
Laddove è successo che un piccolo editore indipendente ha organizzato una tavola rotonda sull’editoria indipendente, e su cosa si può fare per superare la crisi, accompagnando il tutto con un bicchiere di ottimo vino da agricoltura biodinamica, per sottolineare una correlazione tra i due ambiti.
Ora, l’editore ha chiamato altri sei editori indipendenti. L’incontro era aperto, e libero, essendo fuori salone, in una sala di Eataly, posto meraviglioso e terribile (per una golosa come me).
Chi è intervenuto a questa tavola rotonda? Intendo dire, a parte l’editore stesso. E gli altri editori invitati. No. Non tutti gli editori si sono presentati, alcuni hanno ben pensato di mandare solo un loro incaricato con due cartoni di libri da esporre, hai visto mai che vendiamo qualche copia in più. C’era qualche scrittore, un paio di cronisti (di webtv e web radio) e qualche lettore. Tre, quattro lettori, per la precisione, di cui una ero io. Più gente a parlare che ad ascoltare, insomma.
La discussione si è aperta con la giusta considerazione dell’organizzatore: editori in crisi, ma cosa fanno gli editori per arginare questa crisi, dato che non si preoccupano nemmeno di partecipare a un evento che non solo è organizzato, ma anche pagato, e in più ti offro del buon vino?
Ed è proseguita (la discussione) con il problema della distribuzione, che questi distributori fanno il gioco delle big, e gli editori indipendenti non se li fila più nessuno. Per non parlare dei librai, che quando gli vai a chiedere il libro di Micro-editore-locale ti rispondono con mille scuse pur di non ordinarlo. Ma il problema più grosso, il grandissimo problema dell’editoria, è che la gente non legge. Non ci sono i lettori, come si fa ad “adescare” i lettori?
Non c’è stata risposta mi pare, dal fronte degli addetti ai lavori. Qualcuno a un certo punto ha pronunciato un po’ timidamente la fatidica parola (politica) ed è stato prontamente rimbrottato.
La risposta migliore è arrivata dalla smilza platea, da un’appassionata di letteratura per l’infanzia che ha spiegato in che modo gli editori per l’infanzia, appunto, si siano mossi in questi ultimi anni. E infatti uno dei settori editoriali meno toccati dalla crisi, è proprio quello.
Ora, io purtroppo ho un problema. Mi sveglio sempre troppo tardi, elaboro le cose a lungo e arrivo alle risposte circa ventiquattr’ore dopo che mi è stata posta la domanda.
Così venerdì ho tenuto una mini-conferenza al mio consorte, mentre ci recavamo al Salone, con lui che giustamente mi chiedeva, ma perché queste cose non le hai dette ieri?
Vabbè, le dico adesso, in ordine sparso.
Allora, inizio col dire che non sempre piccolo editore indipendente è sinonimo di qualità, anzi (e devo dare atto all’organizzatore della tavola rotonda di averlo ammesso) ma io oserei andare oltre, e dire che la *maggior parte* dei piccoli editori indipendenti non è affatto di qualità. Che su uno che fa bei libri, grafica curata, editing preciso e contenuti all’altezza, ce ne sono nove che fanno uscire lavori sciatti, poco o niente editing, refusi e d eufoniche, carta pessima e rilegature che non tengono. Che è vero, i librai indipendenti sono un disastro quando si tratta del romanzo di Pinco Pallo per Mia-zia edizioni, ma è anche vero che ci sono librai che amano i libri e conoscono i gusti dei clienti e sanno che il tal romanzo va bene per loro anche se loro non l’avrebbero mai detto. Che è vero, bisognerebbe che ci fossero librerie in ogni quartiere, come diceva uno degli scrittori presenti, ma come fai a immaginare una libreria a Pietralata (per dire un posto che conosco bene) senza sbellicarti dalle risate? O una libreria nel paese di Colle Nebbioso, da cui scrivo, in cui a malapena sopravvive una bibliotechina?
Che i colossi come Amazon e Mondadori e Ibs e Feltrinelli hanno gioco facilissimo in questo, perché chi legge sa già che quello che cerca spesso non lo trova in libreria (che ormai sembra la succursale del banco libri dell’ipercoop) ma quasi direttamente alla fonte, nel magazzino dell’editore. Che certi librai non si preoccupano minimamente di tenersi quel genere di cliente (sfogli un libro davanti a uno scaffale e ti riprendono: “qui i libri si comprano, non si consultano”) ma puntano ai pochi sporchi migragnosi ma forse sicuri soldi di quelli che si mettono in libreria le barzellette di Totti o le battute della Littizzetto.
Altra cosa che non ho detto (perché ribadisco, sono una ritardataria cronica). Quelli che comprano Totti e la Littizzetto non sono gli stessi che comprano Murakami o anche Camilleri. Sono due mercati diversi, l’unica cosa uguale è la percezione che i nostri occhi hanno del medium. Sono un po’ come opossum e toporagno. Sembrano cugini, ma in realtà l’opossum è un marsupiale, il toporagno un placentato, sono ordini diversi, metodo riproduttivo diverso, totalmente incompatibili l’uno con l’altro.
Non è che eliminando le barzellette di Totti chi le compra si adatta a prendersi l’ultimo di Bolaño. Probabilmente chi compra le barzellette di Totti, senza le barzellette, comprerebbe una sciarpa della Roma.
E infine. Quella parola tanto deprecata. Politica. La politica c’entra, direi anzi che è il fulcro. Quando vai al nocciolo si riduce tutto a questo. Politica.
Perché per recuperare i lettori mancanti, per far sì che quel 54% che dichiara di non leggere nemmeno un libro all’anno torni (o meglio ancora: inizi) a leggere con piacere è la politica che deve muoversi per prima, che deve incentivare la lettura dall’alto facendo in modo che la passione nasca dal basso.
Perché leggere non deve essere un’imposizione, ma d’altro canto senza determinati interventi le cose non cambiano (e qui entrano in gioco tutte le discussioni che ho sentito gli ultimi anni sulla cultura, su scuola e università, su riforme balorde e soldi che mancano).
Tagliando fondi alle scuole non incentivi i ragazzi a leggere. Tagliando fondi alle biblioteche non incentivi la gente a frequentarle. Tagliando fondi alla cultura non incentivi le persone a continuare (o iniziare) ad andare per musei, mostre, cinema, teatro. Queste sono tutte cose che costano, ma senza un investimento iniziale i soldi non arrivano dal nulla, mai.
La gente non guarda la tv spazzatura perché gli piace, ma gli piace perché è l’unica proposta che trova quando accende la televisione. E che alla gente piaccia solo la tv spazzatura è una cazzata, perché appena ti metti a produrre bei programmi, cose interessanti, e ben fatte, l’audience ti premia (d’altra parte questo significa, col modo di pensare che abbiamo in questo paese, che la Rai continuerà a riproporti Benigni che parla di Dante fino alla morte per noia. Producete qualcos’altro, una lettura di Petrarca, una trasmissione sull’Orlando furioso, sant’iddio, non esiste solo Dante!).
Però, da una parte un presunto, citatissimo genio dell’economia ha detto che con la cultura non si mangia. Dall’altra quello – che mi pare anche nel coltissimo mondo editoriale alcuni non riescano proprio a mettersi in testa – che non è la domanda che crea l’offerta, ma il contrario. Uno degli scrittori si lamentava che parecchia gente compra Dan Brown, snobbando la letteratura vera. Ma, signori miei: siete anche voi che avete creato questo circolo vizioso. Un esempio pratico: il fantasy.
Esplosione dell’interesse dei lettori per il fantasy, nemmeno troppi anni fa. La letteratura fantasy esce (finalmente) dalla cerchia di appassionati nerd ed entra nel suo momento di grande fama in Italia. Cosa fanno gli editori (non tutti ma molti)? Invece di coltivarsi questa potenziale platea plenaria di lettori, puntano al “tutto e subito”. Non cercano il talento, gettano nella mischia quanta più roba possibile, che le mode passano. (Grossomodo quello che stanno facendo col pianeta: spremerlo finché non resterà più niente e sticazzi di quelli che verranno dopo.) Il risultato direi che è sotto gli occhi di tutti, con gli intellettuali “veri” che continuano a storcere il naso di fronte al monnezzone per adolescenti, ignorando la portata ben più ampia del fenomeno.
Concludo riprendendo il mio preambolo di secoli fa.
Ho visto tanta gente al Salone di Torino, come vedo tantissima gente alle giornate del Fai, come ho visto tantissima gente nelle notti bianche. La gente non è una massa ignorante e zotica che va dove gli si indica. Se solo potesse accorgervene. Se solo non avessimo *questi* politici interessati solo a spremere l’ultima goccia, piuttosto che a rabboccare i calici. E anche certi intellettuali un po’ scollati da un mondo in movimento vorticoso verso un futuro tutto da interpretare.
Ps: in tutto questo sproloquio (chiamarlo articolo sarebbe offensivo per gli articoli veri) ho scritto continuamente una parola, “gente”. Di solito “gente” lo intendo con accezione negativa. Va da sé che in questo caso il significato voleva essere ambiguo. Una percezione (in malafede?) da parte di “loro” (politici, librai ed editori) dei non lettori, dettata, questa percezione, dal non conoscere affatto le persone cui vorrebbero vendere i loro libri. La mitica “gente”, appunto.
Purtroppo arrivo solo ora a leggere questo post. Devo dire che concordo su quasi tutto e ciò su cui non concordo è solo perché lo vivo dall’altra parte e lo conosco da altre angolazioni. Per esempio, una grande, grandissima piaga dell’editoria italiana sono gli editor che spesso soffrono della sindrome dello scrittore fallito e lavorano solo con il filtro di questa logica. Ho visto fondatori e direttori di case editrici piccole e grandi perdere il sonno sul perché le cose andassero male mentre non si accorgevano di avere un editor in chief demente che promuoveva gli scritti più noiosi e banali di amici/osannatori/signorinedisponibili e scartava quel che era invece di valore. In questi casi il libro non vende già prima di essere stampato. Premesso che non sto parlando del mio caso, io ho fatto poco e lavorato sempre con editor super-pazienti e professionali, ma vedo questa dinamica di frequente. Soprattutto nelle case editrici in crescita. Fanno un paio di best seller, ampliano l’organico e arrivano gli editor-caprone. Li assumono apposta. E da quel momento in poi si affossano da soli, continuando però a cercare le ragioni nel lettore che non legge, nella libreria che non prenota, nel distributore che fa gli interessi dei grandi.
Gli editori dovrebbero ricominciare a entrare nelle librerie e scegliere di persona che cosa pubblicare, senza affidarsi a un manipolo di marketingmen della domenica. L’editore che fa il lavoro di editore, infatti, è sempre quello che ce la fa nonostante la crisi.
Grazie della tua testimonianza, è preziosa! ^_^