Tra le tante distorsioni linguistiche proprie della comunicazione contemporanea, mi fanno impazzire quelle legate alla metereologia.
Ultimo (o magari penultimo) esempio, l’idiotissima corsa al battesimo di qualsiasi minima perturbazione o anticiclone inaugurata l’anno scorso da un certo sito e ripresa senza colpo ferire da giornali supposti “seri”. Ma ormai affermata da tempo è la titolazione standard per giorni afosi come questi, in cui le stelle polari sono due parole: “temperature” e “record”. Quando poi si va a leggere l’articolo sottostante, si scopre invariabilmente che in un po’ di città il termomentro arriverà a 35 gradi, come se fosse la prima volta nella storia a giugno. Ora, un record è un record, non si scappa. Vuol dire qualcosa di mai raggiunto (nel lancio del disco, nei panini strafogati in un minuto, nelle temperature raggiunte in un determinato luogo in un determinato tempo). 35 gradi a Roma il 20 giugno sono un caldo osceno e ai limiti dell’insopportabilità, ma non sono un record.
Siccome il linguaggio agisce sulle menti, la conseguenza pericolosa insita in tale indebita spettacolarizzazione di singoli eventi climatici senza rilevanza è che chi usufruisce di tale informazione alla fine viene anestetizzato rispetto al vero problema, che non è la singola ondata di calore, ma il riscaldamento globale. Quello sì, da record, altro che Ade e stupidaggini accluse.