Discese di traverso, a saltelli, sul lato destro del torrente. All’inizio andò tutto bene anche se il pendio era più scosceso di quanto le fosse apparso dall’alto e ogni volta che si muoveva il terreno le sfuggiva da sotto le suole. Lo zaino, del quale fino a quel momento non si era quasi accorta, cominciò a sembrarle un neonato voluminoso e instabile in una di quelle gerle che usano le madri indiane; ogni volta che le si spostava sulla schiena, doveva agitare le braccia per mantenere l’equilibrio. Ma procedeva bene ed era un fatto di cui rallegrarsi, perché quando si fermo a metà della discesa con il piede destro puntato e sprofondato nel pietrisco, vide che ormai non avrebbe più potuto tornare indietro. Volente o nolente, era costretta a raggiungere il fondo della valle.
Ripartì. A tre quarti della discesa le volò in faccia un insetto più grosso degli altri, non più un moscerino o una zanzara. Era una vespa, e Trisha la scacciò con un grido. Lo zaino si spostò violentemente verso il lato a valle, il suo piede destro non trovò presa e tutt’a un tratto perse l’equilibrio. Cadde, urtò con la spalla la parete rocciosa abbastanza forte da sbattere i denti e cominciò a scivolare.
«Oh, merda secca!» esclamò afferrandosi al terreno. Sotto la mano trovò solo sassolini che scivolarono con lei mentre una scaglia di quarzo le tagliava il palmo provocandole una fitta secca di dolore. Acchiappò al volo un cespuglio, le cui stupide corte radici abbandonarono subito il terreno senza opporre la minima resistenza. Il suo piede batte contro qualcosa, la gamba sinistra le si piegò con dolore e all’improvviso si ritrovò nel vuoto. Il mondo intorno a lei si rovesciò nella sua involontaria capriola.