La Jonathan navigava costeggiando, per scampare ai barbareschi e ai pirati che di quella stagione giravano, sempre a caccia di preda. Passarono, avvertì il secondo, davanti a Fiumicino; c’era temporale sulla costa e nuvoloni di polvere raso terra nascondevano la riva. S’era immaginata, Artemisia, che distinguerebbe la cupola di San Pietro, e senza chiederne la cercava. Crudelmente la linea della costa si confondeva col cielo grigio, crudelmente la nave rinforzava la corsa sotto le vele tese. Alzando allora la testa, le agilità incredibili dei mozzi sulle corde, il volo dei gabbiani, il fischio del vento, e quegli enormi gonfi lenzuoli che vibravano da schiantarsi, le proposero una imminenza così catastrofica e mortale che l’ultima ora vi sembrava descritta. Stringeva le labbra contro il gran vento senza domandare d’esser rassicurata e quasi senza paura aspettava un tracollo. A piedi nudi, sulle assi battute e fradice, correvano i marinai. Qualche sordo fragore. Qualche grido lungo stralciato dal vento. Le onde si scavalcavano, lievitavano sempre più grige, attingendo dal fondo nero invisibile un mostruoso incitamento. Se qualcosa esprimeva l’animo d’Artemisia, in quel frangente, era stupore, meraviglia che la propria fine richiedesse quasi un portento. E se ne inebriava: appagandosi così, fuor d’ogni coscienza, la sua vecchia sete di trionfo.
letto e riletto.
uno dei pochi che mi piace sempre.