Una cosa di cui nessuno ti avvisa, quando sei alle scuole medie, è che non sarai mai più così ricettiva(o), che nessun libro, film, disco conteranno per te quanto quelli che scopri in quegli anni, che non sarà così per sempre, non sarai carta assorbente mai più, dopo la preadolescenza.
Così l’adorabile quanto insopportabile Guia Soncini.
Se quegli anni per te erano i “favolosi” 80, questo si condensa nel timbro inconfondibile dell’epoca, in una vibrazione emotiva oscillante tra il luccichio dei colori primari, l’incanto pop di un’elettronica primigenia e il sentimento dell’apocalisse, del post-no future. Furono gli ultimi anni della age of industry and technology, prima di trapassare nella age of information and ecology. La fine di un’epoca, il suo culmine, in qualche modo. Guardandoli a ritroso, sembrano davvero il pre-finale di un mondo, il precario apice di qualcosa che va a terminare. Il trionfo dell’artificiale, ma con una sua innocenza, una ingenuità che mette una certa tenerezza nel cuore.
Le loro canzoni più belle danno sempre la sensazione, ad ogni ascolto, che ti sia sfuggito qualcosa che eppure è sempre lì a portata di orecchio, una lettera rubata nascosta nel suono, dal suono rivelata, tutte le volte. Un gioco di prestigio coi sensi, col tempo, la durata, la ripetizione l’incanto.
Sensazioni trasmesse perfettamente nella retroimmersione ottantesca di Donnie Darko, dalla corsa in bicicletta iniziale su The Killing Moon all’ingresso a scuola su Head Over Heels, dal balletto su Notorius allo sbocciare d’amore su Under the Milky Way.
Un film terapeutico se ce n’è uno, che mi ha fatto far pace con tutto ciò che ho vissuto e non ho vissuto in quegli anni, sotto la Via Lattea.
Che film! e che soundtrack!
Che conigli!