Son stato sempre più o meno amabilmente preso in giro per la mia “mania” di prendere appunti.
Da qualche parte c’è una foto divertente che mi scattarono a Lisbona fuori da un locale: io e un altro tizio sconosciuto, accanto, mentre prendiamo appunti su due taccuini speculari, ignari l’uno dell’altro.
Ho iniziato alle medie. Al principio erano fogli sparsi, ognuno vergato con la terribile, informe calligrafia che mi affliggeva all’epoca, in ogni direzione: un appunto dritto, uno rovesciato, un altro magari in diagonale, in un gioco disordinato di incastri tendente via via all’inintelligibilità. Infatti finiva che i mazzetti di fogli si accumulavano, al punto che ritrovarne il senso molteplice diveniva quantomeno arduo. Spesso perdevo la battaglia con me stesso e buttavo il tutto.
Col tempo, per fortuna, la calligrafia è migliorata (se non nella chiarezza, nell’eleganza grafica), e m’è giunta la rivelazione che i taccuini esistono apposta per ospitare gli appunti, preferibilmente una riga alla volta, nello stesso verso di lettura. Trattasi qui, par quasi inutile precisarlo, di spunti concettuali, idee, progetti, frasi autoideate o colte al volo, ché per quelli pratici (appuntamenti, cose da fare e disfare) ci sono le parallele agendine.
Prediligo taccuini Pigna (il formato più piccolo e facilmente intascabile), che compro sempre nella stessa tabaccheria. Non potrei usare un Moleskine (come non uso penne fighette, anche perché le abbandonerei sparse per il mondo): un po’ perché l’eleganza del contenitore mi terrebbe in soggezione, un po’ perché non amo lasciare traccia di tali rimuginamenti, che sono un mezzo tendente a diversi fini. Una volta riportati sui rispettivi file in der computer, inutile lasciarne traccia ulteriore ad appesantire il mondo (vade retro, critica degli scartafacci).
Non so come facciano gli altri, io sono costretto all’uso del taccuino perché l’ispirazione (o come diamine volete chiamarla) non m’arriva mai sedendomi a una scrivania (anche perché sennò starei fresco), bensì mentre staziono al gabinetto, scendo da un autobus, cammino, faccio una fila, penso a tutt’altro. E, se non fisso subito l’attimo, dopo quella fugace lampadina s’è spenta forse per sempre, a meno di un ulteriore collegamento sinaptico similare, su cui è bene non fare troppo affidamento (la cosa più sorprendente è rileggere a distanza di tempo qualche riga e non ricordarsi di averla mai buttata giù – perché lo fece un’altra persona, un altro me). Pure quando scrivevo recensioni cinematografiche, dovevo prendere appunti oscuri nell’oscurità della sala, perché spesso era in quelle impressioni fugaci, più che nel riordinamento conclusivo, dove intelligenza e cultura intervengono a imbrigliare i sensi, che insorgevano (se insorgevano) illuminazioni.
Il pericolo è la dipendenza, ovvio. Una volta che ne persi uno da qualche parte, cercai di ricostruirlo mnemonicamente fino a quando non arrivai a casa trafelato per riportare tutto quello che ricordavo su uno nuovo. E se arriva qualche dono dal cielo dentro la capoccia mentre non posso appuntare (perché sto correndo o guidando, metti), mi costruisco delle rigorose litanie mentali da riversare sul foglio appena possibile. Vitaccia.
Esempio di meta-appunto, per finire:
L’ispirazione è unica, forse irripetibile. Ma i pensieri tornano, a onde. I pensieri, questi impalpabili figli dell’attimo, si fagocitano l’un l’altro, all’infinito. Allora scrivi, butti giù appunti, li accumuli, li accorpi, li correggi, li tagli, li agganci, armeggi, pasticci, ti sforzi di cogliere il nesso, il percorso, la struttura interna, l’idea guida nel delirio furibondo di schegge, congetturazioni nomadi in fuga dalle rovine del moderno, per arrivare al momento in cui tutto (forse) si tiene. È un bel momento.